Un banale mercoledì. Un volo a mezzogiorno, destinazione Tel Aviv.
Erano le 9 del mattino, la compagnia di volo israeliana Elal chiedeva di presentarsi con tre ore d’anticipo. In coda con me gruppi di pellegrini che attendevano di imbarcarsi per la “Terra Santa”, più o meno giovani, poi me. Partire per Israele non è così semplice. Ogni passeggero deve sottoporsi alle domande del personale di bordo prima di effettuare il check-in, a volte a ispezioni dei bagagli. Le domande sono di natura generale, personale e logistica. Viaggiare in gruppo è più semplice che soli, in questo caso la ragione del viaggio è presto detta. Viceversa, non credevo che una giovane ventiduenne laureata in lingue potesse rappresentare un sospetto per lo Stato d’Israele, ma già da quel mattino realizzavo che non fosse scontato il motivo per cui un normale studente potesse dirigersi a a Tel Aviv solo, o quantomeno in compagnia di sua madre. “Chi ti ha fatto i bagagli?” “Sei stata l’ultima persona a chiudere la valigia?” “Chi ti ha accompagnato in aeroporto?” ”Che rapporto ti lega alla persona che hai accanto?” “Quale ragione ti porta in Israele?” “Soggiornerai da qualcuno una volta lì?” “Che città visiterai?” “Perché studi lingue?” “Ti sei laureata?” ”E che farai dopo?”. Strano, mi avevano detto che Tel Aviv era la città della libertà.

È nel volo Elal che ho assaggiato il mio primo hummus israeliano, assieme alla pita e alle kobe (polpette di carne e semolino). Il tempo di provare a leggere qualche testata israeliana, ascoltare le hits dell’altro lato del Mediterraneo e le conversazioni dei miei vicini, che bisbigliavano in quella strana lingua gutturale, ed ero presto sulla costa di Tel Aviv, la città costruita all’inizio del Novecento sulla sabbia dell’antico porto di Giaffa.
Atterrare al Ben Gurion equivale incrociare fedeli di ogni credo provenienti dai cinque continenti. Ad accoglierci è la star del posto, Bar Refaeli, così in aeroporto, come in ogni angolo della città. Il suo sguardo languido si posa su ogni anima della capitale. Usciamo, c’è caldo, rilasciato dall’asfalto ancora carico di una giornata di sole. Prendiamo un taxi per raggiungere il nostro appartamento dietro la Rotschild Avenue. Il nostro tassista è un ebreo uzbeko, comunichiamo in russo, inoltrandoci nella città al tramonto, tra palme e grattacieli. Forse mi aspettavo una piccola Beverly Hills, ma ho presto trovato una caotica Atene con edifici malandati e vecchi, e spazi comuni disordinati. Mi rendo conto di essere molto a sud, e l’idea mi piace. Una judia (ebrea) argentina gestisce il mio aparthotel, ed è comunicando in spagnolo che mi conduce al mio appartamento.

Pensavo che solo l’inglese potesse salvarmi dall’ebraico e dall’arabo, ma presto ho realizzato che l’inglese sarebbe stata l’ultima lingua di comunicazione. Esco di casa per cena, due passi nella Rotschild e mi dirigo verso il mare. L’interminabile lungomare dei grattacieli di Tel Aviv, un affaccio di mare aperto da Giaffa al porto commerciale, km di spiaggia libera e di piste ciclabili, campi da beach volley e locali animati soprattutto in notturna, a fine ottobre, con 25 gradi di aria secca. C’è chi corre, chi sorseggia un drink a piedi nudi in riva al mare, chi inizia una partita di beach, chi fa yoga, chi passeggia, sembra una notte di mezza estate. Da un lato i kilometrici edifici di vetro, dall’altro la spiaggia selvaggia, alcuni uomini d’affari in completo si sfilano giacca e scarpe dopo il lavoro per scendere a mare. Poi la marina di Tel Aviv, un quadrilatero di locali alla moda dove ceniamo e addentiamo il nostro primo kebab, con un bicchiere di arak (raki, un esercito di antipastini e un assortimento di salse spalmabili sulla pita, dalla tahina, all’hummus, allo skhug (salsa di peperoncino e spezie). Un conto salato, ma Tel Aviv è così, trendy, godereccia e costosa, e la mancia è d’obbligo.


È tardi e nel quartiere più all’avanguardia di Tel Aviv scegliamo di rincasare tramite il mezzo più popolare della city, lo sharut. Lo sharut è un minibus condiviso di rimando sovietico che serve vari distretti della città. Di colore giallo e contrassegnato da numeri diversi in base alle aree di copertura, si ferma al segnale di autostop in qualsiasi angolo della strada, e allo stesso modo rilascia i passeggeri al prezzo fisso di 5,9 shekel, passati di mano in mano fino al conducente, anche davanti all’indirizzo di casa. In una metropoli in cui gli autobus finiscono sistematicamente imbottigliati nel traffico e la metro aspetta di essere completata nel 2022, lo sharut è tutt’ora il mezzo salvavita dei cittadini, assieme alla bici. Un giorno, qui dicono, lo saranno anche le auto senza guidatore.
(continua..)