Tel Aviv la costruirono sulla sabbia

Nella Tel Aviv tanto tecnologica e avanguardista, quanto trasandata e orientale, cerco all’indomani il simbolo degli abbienti sionisti di inizio secolo, le case Bauhaus. Ce ne sono circa 4000 in tutta Israele, e sono concentrate particolarmente nel quadrilatero attorno al nostro appartamento, tra la Yavne, Montefiore e Melchett Road. Case costruite nei roaring twenties da ricchi magnati tedeschi, russi, americani sulla sabbia di Tel Aviv, alcune più fastose altre più sobrie, ma tutte fiere e regali showoff di status symbol. Si tratta di una concentrazione di edifici ereditari della scuola di Dessau unica al mondo, che ha dato vita al complesso modernista architettonico denominato White Ciy, caratterizzato da linee eleganti e giardini tropicali. Quasi a incarnare il simbolo della Nuova Israele, allora sotto il Mandato Britannico, decine di architetti provenienti dalle scuole europee crearono da zero una città ideale, adattando il Bauhaus al clima torrido della regione e ai materiali da costruzione locale. Non solo, la longevità del patrimonio modernista di Tel Aviv è dovuta anche all’utilizzo di materiali importati proprio dalla Germania nazista, nel quadro del controverso “Transferumbau”, il patto segreto tra leader sionisti israeliani e vertici nazisti tramite cui migliaia di ebrei lasciarono il Reich dietro ingenti pagamenti in denaro. Tali proventi venivano depositati presso le banche britanniche in Palestina per poter consentire l’acquisto di materiale edilizio tedesco fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, consentendo al Reich di incassare fino a 50 milioni di marchi. Equivoci della Storia.

Per colazione mi fermo a uno dei tanti chioschi della frutta agli angoli della città per un frullato di melograno, uno dei simboli della religione israelitica, l’elisir di questa terra, un tempo fiore all’occhiello dei commerci della nobiltà terriera palestinese. Poi procedo verso il grande forno kosher Lehamim in Hashmonaim 103, l’ideale per gustare dolci locali e pane appena sfornato, nonché uno dei migliori challah, il dolce dello Shabbat, ossia il giorno di festa della settimana ebraica che inizia il venerdì sera. La mattinata prosegue al Carmel Market, lo storico mercato cittadino, il regno dello street food, della contrattazione, e delle bancarelle di oggettistica spiccia. Una favola un po’ sopravvalutata nelle comuni guide turistiche.

Preferisco perdermi a Neve Tzedek, il quartiere del design e delle boutique di moda incastonato tra i grattacieli del centro pulsante della città. Neve Tzedek è un angolo di città in parte pedonale costituito da edifici storici a misura d’uomo, animato da lenti meccanismi di quartiere, caffè letterari, librerie indipendenti, laboratori di artigianato, pasticcerie sofisticate, ristoranti informali all’ombra degli alberi, personaggi ricercati. Più avanti, verso il mare, si incontra la vecchia stazione di Giaffa, Hachana, un tempo dismessa e oggi riconvertita in food court e centro di esposizione d’arte contemporanea.

Finalmente arrivo a Giaffa, l’antica città fondata dai Fenici, dove Perseo salvò Andromaca. La città, da sempre porto religioso, commerciale e strategico nel Mediterraneo, nel 1880 contava solo 10.000 persone. Prima che Tel Aviv fosse velocemente costruita a nord di Giaffa sotto il mandato britannico (dal 1917), la città fioriva per il commercio dell’agrumicultura. Il piccolo borgo in stile ottomano affacciato sul porto era infatti attorniato da piantagioni di sesamo, cotone e agrumeti. Oggi Giaffa è simbolo di un lungo passato di dominazione ottomana, simboleggiata dai konak e dai minareti, e, per ora, di sincretismo religioso, se si considera il monastero di San Pietro esattamente nella piazza centrale. Sebbene parte la comunità ebraica risiedesse qui fin dal 1840, solo da fine Ottocento iniziarono ad approdare al porto di Giaffa le navi cariche dei primi sionisti. Il contrasto tra la popolazione araba locale e la crescente minoranza ebraica iniziò ad acuirsi a partire dalla cacciata dei turchi, operata dal generale Allenby nel 1917. Nel 1921 gli arabi sfociarono in una violenta rivolta contro gli ebrei, fino allo scontro finale del 1948 (prima guerra arabo-israeliana), dopo il quale nella vecchia Giaffa rimasero solo gli ebrei, che la rimodernarono e agghindarono a perfetta attrazione turistica, con qualche galleria d’arte, boutique e caffè sul lungo mare. Un monumento sul lungomare commemora gli eventi del 48, che “finalmente” restituirono agli ebrei la “loro terra”, liberandola dal giogo musulmano.

Tuttavia, è la vita della Giaffa nuova a colpirmi, fuori dalle mura della vecchia Kasba, dove risiedono in maggioranza gli arabi musulmani di Tel Aviv. Basta scendere nella downtown di Giaffa per incontrare la comunità musulmana che qui si è concentrata (ghettizzata?) a partire dai conflitti di metà Novecento. Confesso di essermi addentrata in questo ampio quartiere a sé stante solo per scovare il rinomato “Abu Hasan”, il locale di falafel e hummus migliore di Giaffa. Qui ho assaggiato tre varietà di hummus, di ceci, di fagioli e piccante. I prezzi diminuiscono visibilmente rispetto al centro città, diventa ora difficile vedere donne non accompagnate sedere al bar o esibire il capo. C’è qualcosa di profondamente utopico nella quotidianità di Giaffa nuova. Le scritte amministrative sono in ebraico, le insegne, i locali e i manifesti sono in arabo. Ho sentito in queste strade per la prima volta a Tel Aviv il richiamo alla preghiera del muezzin, proprio mentre incontravo due ragazze soldato israeliane che riposavano dall’attività in caserma, dietro la moschea. 18 e 21 anni, stavano entrambe “scontando” il servizio militare della durata di tre anni, conditio sine qua non avrebbero potuto accedere all’università, mi raccontavano.

Faccio ritorno verso il mare, al di là dal “recinto” di Giaffa, verso la nuova Tel Aviv. Il frastuono di Tel Aviv si perde nelle onde del Mediterraneo calmo, è l’ora dell’imbrunire, mi addormento. Più tardi, al “Goldman bar” sul lungomare, ripenso a come ogni giorno due facce della stessa medaglia possano convivere quotidianamente in calma apparente, godere dello stesso immenso mare, pregando ognuno il proprio dio, in forma più o meno praticante. Oppure non pregando affatto, pur sempre opponendo identità ben distinte. La sera mi immergo ancora nella realtà creata dal sionismo, al “Cafè Suzana”, in Shabazi Street, dove i commensali riuniti sotto ai platani di Neve Tzedek conversano nelle loro lingue madri. Spagnolo, scandinavo, polacco.. Intercalano con frasi nell’astruso ebraico, la lingua attraverso cui i sionisti hanno comunicato nella nuova società e scritto la loro recente storia. Sembra un’invenzione della Storia questa terra, in cui in un secolo un popolo riunitosi da ogni dove ha plasmato una capitale sulle dune sabbiose della Giudea, creato un’identità, disfatto, affermato, diviso, unito. Gli ebrei che ritenevano di aver diritto a uno Stato hanno scelto Tel Aviv per riunirsi da tutti gli angoli di mondo, e l’hanno progettata in modo da accogliere individui di diversa cultura e tradizione, importando tanto l’avanguardia e la ricchezza occidentale quanto i rituali più atavici. I sionisti hanno portato con sé sapere, conoscenza, modernità, hanno costruito prestigiose università, edifici mastodontici, centri finanziari, branche di multinazionali, rappresentanze diplomatiche, musei, infrasutture, incasellando cosmopolitismo e modernità in un Medio Oriente fino a prima ignaro, che tutt’ora resiste inesorabile nel disordine e nell’approssimazione della città, nei ritmi lenti, nei sapori, nei colori del cielo, dei tramonti.

La brama di cosmopolitismo e il desiderio di rendere Tel Aviv il posto più accogliente e vivibile del recente Stato ha diffuso il pensiero comune che la città sia il regno del lecito, dove ogni cultura, colore, orientamento sessuale, pensiero e abito sono accettati; ciò ha arricchito la città di giovani, ideali liberali, eventi internazionali, opportunità di business, feste: il regno del possibile. Ma confondere Tel Aviv con una città occidentale è un facile errore. E’ nei muri invisibili che si cela lo scontro quotidiano provocato dal Conflitto. Nei monumenti che celebrano le vittorie israeliane nei quartieri musulmani, nelle caserme israeliane di fronte alle moschee, nei controlli di sicurezza in svariati punti della città, nella volontà di cancellare il passato e imporre il presente, un presente ebraico che nel suo stesso seno religioso serba antiche faide intestine, tra gruppi di diversa lingua e provenienza difficilmente disposti a tradire la propria storia in favore della Nuova Idea di lingua, cultura e Stato di Israele.

Non potevo pretendere di capire tutto in quarantotto ore, non avevo mai visto un luogo così folle, e non avrei mai dimenticato quel mare, compagno di vita quotidiano degli abitanti di Tel Aviv, accessibile ovunque, calmo di giorno e increspato la sera, a simboleggiare quasi uno sbocco del Medio Oriente verso la libertà.

Il giorno dopo saremmo partite per Haifa, verso nord. Trovandoci accidentalmente abbandonate dal nostro transfer al Ben Gurion, nel giorno di Shabbat non avremmo trovato alcun taxi in servizio. Solo l’ultimo sharut diretto a nord ci avrebbe caricato con sè, grazie a un’ebrea giamaicana persuasiva in vena di fare l’interprete, noi dirette verso Stella Maris, lei verso un accampamento hippie nei pressi di Cesarea…

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