Sul Nilo – Luxor e Karnak

Ogni giorno offrono il tè delle cinque sul ponte, qui nella motonave sul Nilo. I greci chiacchierano fino all’ora di sera, gli italiani si abbronzano in costume, spuntano anche alcuni tedeschi, sennò perché al buffet della crociera ci sarebbe la torta Linz? Siamo tutti sonnambuli, fluttuanti in un’atmosfera calda, ovattata, dopo una notte in bianco e una visita cocente alla Valle dei Re, ai tempi di Karnak e Luxor. “Sveglia alle 4.30” ci aveva detto Ahmed, la nostra guida, la sera precedente, all’aeroporto di Luxor.

Arrivati all’imbarcadero, gli egiziani avevano allestito un buffet di panini e frutta per i nuovi passeggeri, nel cuore della notte. Poche ore dopo eravamo sulla riva occidentale del Basso Nilo, laddove tramonta il sole, e così anche le anime dei faraoni d’Egitto, ivi sepolti. Egittologi, archeologi, sciacalli di opere d’arte hanno rinvenuto circa sessantacinque di queste monumentali tombe ipogee tra l’Otto e il Novecento, quando l’Egitto Ottomano, ancora nel suo noncurante torpore, ignorava il suo magnificente passato. Se nel nostro immaginario la scoperta dell’intatta tomba di Tutankhamon (1922) ha contribuito ad avvolgere nella leggenda la storia di questa civiltà millenaria, io mi chiedo quanti tesori e scoperte rimangano silenti e sepolte nelle sabbie del deserto, forse per l’eternità, come evocato dall’affascinante simbologia della “chiave della vita”. Chiavi, scarabei, falchi, sciacalli e papiri.. gli Egizi affidavano al mondo dei Morti i loro divini sovrani, conservando i loro organi in vasi canopi, confidando nella protezione degli animali sacri, gli stessi che abitavano la fertile regione del Nilo, dove l’acqua donava la vita, il grano, la ricchezza dell’impero egiziano. Che ne resta oggi del granaio egizio? Si rivolterebbe nel suo sarcofago la regina Hatshepsut, la prima sovrana dell’antico Egitto a regnare come un uomo, con la piena autorità del faraone. La stessa che, facendosi comunque rappresentare come un sovrano maschile, aveva sovvertito la rigida patrilinearità del potere, consacrandosi alla memoria dei tempi nel suo tempio gigantesco, smorzato oggi da un inglorioso restauro polacco.

Nulla in confronto alla scala dei Colossi di Memnone, che già Giovan Battista Belzoni narrava nelle sue memorie. In parte alle squallide strade di Luxor e ai baracchini di alabastro di dubbia originalità, all’orizzonte si stagliano queste incredibili statue, riducendo gli esseri umani nei dintorni a misero formicaio. Non molto diversa dalla sensazione che nell’antichità potevano provare i sudditi egizi, quando procedevano attraverso un lastricato di 1,7 km di sfingi, per raggiungere il tempio di Karnak dopo la visita al tempio di Luxor.

Oggi a Luxor inizia l’Eid del Ramadan, quasi tutta la città si riversa nelle piazze principali, sul lungo fiume. Gli europei diedero a questo posto il nome Luxor, conferendo in lascito qualche edificio, primo su tutti il Winter Palace. Oggi molti ragazzi e bambini si avvicinano a noi chiedendo una foto, mance, sgranocchiando merendine, offrendosi di scortarci verso i templi. Noi siamo invece scortati da un agente armato in borghese, fino ai nostri punti di interesse. La realtà stride fortemente con l’inestimabile valore del tempio di Karnak, una sorta di seminario di 70.000 sacerdoti dell’Antico Egitto, di cui ricorderò sempre i maestosi colonnati. Questo era il simbolo del glorioso passato egiziano, l’unico possibile, o almeno così diceva Ahmed.

Le invasioni dei “popoli asiatici” (quelle che lui intendeva provenienti dalla Mesopotamia, ossia gli assiri) del VII secolo a.C, il periodo tolemaico ellenistico e infine quello di dominazione romana sono storiograficamente narrati in Egitto sotto la voce “occupazione”. Occupazione, segnatamente, che vede la parola fine solo col colpo di stato degli Ufficiali liberi nel 1952, e a seguito di cui cessò la (ubiqua) presenza inglese. Curiosa narrazione del corso della storia, che riconosce solo nell’era dell’egemonia faraonica la propria identità, annacquando la ricchezza e la portata degli eventi nel mezzo. Anche oggi, gli egiziani si ritengono discendenti della civiltà dei faraoni, seppur incerti sulla medesima eredità genetica di coloro che definiscono spregiativamente saida, (popoli agricoli del Sud), che ad ogni modo non hanno nulla a che vedere con i nubiani, gruppi minoritari africani di pelle scura. Per di più, gli egiziani faticano a collocarsi precisamente nei segni e significati dell’etnia “araba”. Controverso, per il Paese in cui la Lega Araba ha stabilito la sua sede, e in cui Gemal Abdel Nasser fondò il movimento panarabo.

A me sembra che l’unico immutabile testimone di questo popolo sia invece il Nilo. Quasi come una divinità personificata, questo fresco, generoso e maestoso corso d’acqua scorre lento e placido, attraversando l’intero Egitto, dal Mar Mediterraneo all’Etiopia, determinando le sorti della terra che bagna, nel bene e nel male. Anche dei due venditori di tovaglie che attraccano in corsa alla nostra motonave, provando in spagnolo, italiano e tedesco a lanciarci sul ponte della merce, a prezzi chiaramente esorbitanti. I greci urlano “Pirates, pirates”! e poi acquistano divertiti. Io scendo a cena, il pane è molto buono e c’è sempre il piatto del giorno, che sia un arrosto di carne o pesce, lo chef si comporta bene. Poi beh, non vedo l’ora di addentare il mio chocolate marquiz, non so bene cosa significhi, e non è nulla di paradisiaco, solo qui mi sembra effettivamente il dessert migliore che abbia mai assaggiato, me ne farò tenere da parte un piattino ogni sera.

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