Pizzeria Veridiana, quartiere Jardins, San Paolo
Tudo acaba em pizza!, come per gli italiani si risolve tutto a tarallucci e vino, mi spiega il cameriere del Veridiana, un elegante locale annoverato tra le 10 migliori pizzerie del Sud America. Cenare a San Paolo, la terza città italiana al mondo, è ritrovare i sapori degli italiani che “vennero a fare l’America” reinterpretando sapori, sostituendo la mozzarella col formaggio catupiry, inventando la calabresa (di cui mai ho udito in Calabria), applicando lo slogan brasiliano Beleza e grandeza anche al diametro della pizza, esagerato, festoso, ricco di diverse guarnizioni. E’ qui che nasce il rodizio, il concetto di giropizza davanti a cui ogni brasiliano risolve questioni di business, di famiglia, di vita o di morte. Pare che tra le 9000 pizzerie della città se ne consumino circa un milione al giorno, un vero rituale, un comfort food esistenziale che merita addirittura una celebrazione ad hoc nella festa cittadina ricorrente ogni 10 luglio.

La Veridiana, però, è più che una semplice pizzeria. Soggiorno da qualche tempo nel quartiere Jardins, un distretto urbano molto chic tra la Avenida Paulista e la Oscar Frere, dove grattacieli (arranha-ceus) e condomini di architettura sofisticata sono stati costruiti in un rigoglioso ambiente lussureggiante, non per questo San Paolo ama essere conosciuta come la “New York tropicale”. La Veridiana, come altri locali trendy del quartiere, mi offre l’occasione di osservare molti paulistanos, soprattutto quelli che prima del rodizio sostano all’American bar. Appena usciti dal Club Athletico Paulistano poco distante, sfoggiano outfit glamour, sorseggiano caipirinha o un calice di vino argentino vicino al caveu e al corso d’acqua artificiale costruito nel magnifico patio interno. Design, eleganza, fine-dining, servizio eccellente. Così ineccepibile sembra di primo acchito il mondo della notte a San Paolo, così incompatibile con gli spiriti liberi carioca, dei veri surfisti urbani, colorati nelle havajanas e nell’animo, felici di rinunciare alla perfezione paulista pur di godersi ogni tramonto di Ipanema e Copacabana fino all’ultimo respiro. Paulista!, urlava il mio ex allenatore di pallavolo agli arbitri imprecisi, a mo’ di insulto. Nativo di Rio de Janeiro, personificazione dell’antica faida tra le due metropoli, mi diceva “non andare Sao Paolo, città grigia, brutta, pericolosa. Rio città più bela do mondo, con Pao de Acucar, Leblon, Copacabana. Stai attenta anche lì però”. Si, in molti mi hanno detto che San Paolo è una delle città più insicure al mondo, dove a rischio e pericolo del singolo si estrae il cellulare nei luoghi pubblici e si ordina su uber eats tramite l’inserimento del passaporto, così il delivery man può identificarsi presso l’agente di sicurezza del condominio. Così, almeno, mi dice un romanaccio della divisione Eni di San Paolo, l’ho conosciuto una sera sotto la pioggia in una delle coloniali stradine di Paraty, sulla strada da Rio a Santos.
Sono venuta a San Paolo proprio per conoscere il percorso dei miei progenitori veneti, quelli che dalla seconda metà del Novecento attraccarono jn massa al porto di Santos, il florido porto del Caffè. Da qui si imbarcavano sul treno per San Paolo, e giungevano nel quartiere Bras, presso l’Hospedaria dos Migrantes, oggi anche detto il Memorial. Era un luogo di speranza, di arrivo, di delusione, l’Ellis Island paulista. Alle pareti ci sono ancora le indicazioni in italiano verso la foresteria e la mensa, dove leggo nelle tovaglie d’epoca magna che te fa bene! Dopo qualche giorno, a volte mese, potevano partire per le fazende e iniziare la raccolta del caffè. Dal 1850 era stata abolita in Brasile la tratta degli schiavi africani, contraccolpo per i baroes do cafè, che dovettero reclutare repentinamente nuova manodopera. Dai documenti d’epoca i fazendeiros ci descrivevano come “grandi lavoratori”, diversi dagli immigrati giapponesi “troppo diversi”, forse è per questo che i nipponici si dedicarono ad altro, a partire dalle strade attorno a Praca da Libertade, ancor’oggi loro roccaforte in città. I veneti esportarono in Brasile la polenta, parlavano il talian, una lingua veneto-brasiliana che introdusse nel linguaggio corrente parole come sopa, formaio, capeleti, si riunirono nell”Associazione San Marco”, fino a quando alcuni se ne andarono in Argentina ed Uruguay, con la prima crisi del caffè. In totale, tra il 1887 e il 1978 passarono per l’Hospedaria circa 2 milion di persone tra italiani, portoghesi, giapponesi, coreani, libanesi. Nella lobby del museo incontro un nonno con la nipote. Studia genealogia, è venuta qui per tracciare il percorso dei suoi antenati tramite l’Archivio digitale del Memorial. Chissà quanti e dove sono i miei, una volta avevo scovato un nutrito gruppo facebook “I Zecchin in Brasil”. Credo che ora visiterò i luoghi degli italiani che hanno deciso di restare, quelli che nella telenovela dei primi anni Duemila Terra Nostra hanno contribuito a creare l’immaginario sugli italo-brasiliani.
“Ubi italicus ibi Italia”, è la scritta che accoglie tutti coloro che accedono al Circolo italiano di San Paolo presso l’Edificio Italia. La colazione del sabato mattina è il momento giusto per imbattersi negli “italiani che hanno deciso di restare”, in molti, riunendosi abitualmente in questo spazio arredato in stile milanese liberty, tra oggetti ispirati ai colori del tricolore e stampe vintage dell’aperitivo Campari e Aperol Spritz. Da sempre demandato alla gestione dell’intellettualità della colonia italiana, Il Cicolo italiano è stato un luogo di affiliazione, di riunioni massoniche e spesso di contestazione, nel 1924 fu accolto proprio qui l’Ambasciatore Attolico al suon di “Viva Matteotti”! Tuttavia, per quanto la lobby italiana in Brasile abbia e continui a rappresentare le correnti politiche del Belpaese in maniera tutt’altro che monocolore, presso la Terrazza Italia all’ultimo piano dell’omonimo grattacielo è possibile appianare ogni divergenza, in una cornice d’alta cucina che fornisce il migliore panorama a 360° in città. Più informale è stato fin dall’origine in ritrovo italiano presso il Caffè Girondino, poco distante dalla Praca da Se, dove sta la Cattedrale. Qui gli italianinhos hanno sempre consumato il famoso cafezinho paulista, sebbene oggi le coffee roasteries modaiole della Oscar Frere offrano degustazioni di grani del Minas Gerais a dell’Estato do Sao Paolo ai palati più sofisticati negli spazi industrial chic dei torrefattori Santo Grao e Suplicy.
Molte delle grandi fortune italiane non furono però legate solo al caffè. Le architetture di San Paolo raccontano delle storie.
Nel quartiere Centro sono situati i grattacieli dall’estetica più raffinata: il Farol di Santander e l’Edifico do Banco do Estado do Paolo di amabile decorazione liberty. Poi, l’Edificio Martinelli, dal nome di quell’ imprenditore lucchese molto alto per l’epoca, era un 1.90 m. Voleva costruire il grattacielo più alto del Brasile, di tutto il Sud America, ispirandosi a Chicago. Per molti anni mantenne il primato. Altrove, sta l’Edificio Matarazzo, ma quale dei tanti? Questo signore, Francesco Matarazzo, originario di Castellabate, era definito il “secondo stato del Brasile”, uno degli uomini più ricchi delle Americhe. Arrivò in Brasile con moglie e due figli, iniziando a importare farina dagli Stati Uniti, arrivando a creare le Industrie Riunite Francesco Matarazzo che nel 1936 diventarono un impero di 285 stabilimenti metallurgici, tessili ed alimentare con 20.730. Fu la vera stella del firmamento dell’imprenditoria italiana in Brasile, fondatore della squadra di calcio Palestra Italia (oggi Palmeiras), intermediatore delle rimesse italiane in madrepatria, filantropo, potente e intimidatorio verso l’antico establishment dei fazendeiros paulisti. Solo tre dei suoi dodici figli sposarono membri dell’antica oligarchia caffeicola (le prime piantagioni di caffè in Brasile sembrano risalire al 1750), tutti i restanti furono maritati a famiglie della madrepatria. La questione matrimoniale era certamente una questione di casta, un campo di accesa competizione in cui la rampante borghesia straniera si misurava con i detentori del potere politico, i lobbisti del caffè, gli stessi che facevano laureare i figli alla prestigiosa facoltà di Diritto nel Centro di San Paolo, affinchè il potere giudiziario potesse influenzare i processi legislativi ed emanare sentenze che garantissero il privilegio e il mantenimento dell’establishment.




Tuttavia, la furia progressista di San Paolo continuava a esprimersi, palesandosi ancora una volta nelle architetture della città, nella stratificazione di genti, stili, tendenze. San Paolo non è solo la città dell’elitismo, del fashion, del fine dining, del glamour, dell’Ibirapuera di Oscar Nyemer, di Aryton Senna, di Lula da Silva che qui fondò il Partito do Trabalhadores, di cui è tutt’ora alla guida. Per cogliere l’energia di San Paolo bisogna passeggiare per l’Avenida Paulista la domenica mattina, quando il Corso si fa tutto pedonale e affollato da flash mob, mercatini delle pulci, corsi di spinning, venditori di noci di cocco, di fronte a un confusionario e stimolante affiancamento di stili in cui spicca il MASP, il museo d’arte classica e contemporanea più importante del Sudamerica. “Il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente: il tempo non è lineare, è un meraviglioso accavallarsi per cui, in qualsiasi istante, è possibile selezionare punti e inventare soluzioni, senza inizio né fine”.Parole di Lina Bo Bardi, comunista italiana formatasi nello studio milanese di Gio Ponti, divenendo poi architetto del MASP. Lo completò nel 1968 con l’intento di imporre una sorpresa orizzontale al continuum verticale dei grattacieli, al fine di creare un “vano libero”, una pausa, un silenzio di un luogo di cultura dove arte, uomini e museo fossero sullo stesso piano. Lo fondò con Pietro Bardi, critico d’arte e gallerista vicino al regime fascista, il quale lasciò la penisola in seguito alla caduta del duce e sposò poi Lina. Con l’attrice Nydia Licia, ebrea triestina fuggita in Brasile dalle leggi razziali, e Assis Chateubriand, magnate della comunicazone brasiliana, si dedicarono alla vita del Masp per il resto della loro vita nelle Americhe. Dalla finestra del Masp continuo a respirare l’energia della città, che ritrovo solo nelle opere colorate, destrutturate, fallaci della meravigliosa arte figurativa brasiliana, spesso ispirata ai colori e agli abitanti della foresta amazzonica. Viene data grande rilevanza all’arte femminile, così come in strada assisto a un corteo femminista e lgbt+, in linea con la retorica anti-machista e gender friendly che ho trovato anche a Rio. Vorrei saprerne di più, se questa è davvero una tematica brutalmente sentita a livello bipartisan, o se è una sorta di revanche nei confronti di quel Bolsonaro che se l’è squagliata in Florida alla sconfitta delle ultime elezioni.
Di Fatto San Paolo è una metropoli da 20 milioni di persone, fondata dai gesuiti di Manuel da Nobrega nel 1554 sulla terra degli indigeni tupì-guaranì, attanagliata dal lutto per la morte di Papa Francesco (21 Aprile 2025), la città più ricca e povera del Brasile, dove avviene la parata gay più numerosa al mondo. Un connubio contraddittorio e instabile che non può che ingenerare una certa elettricità, un’ansia del destino, una disordinata proiezione nel futuro che la rende capitalista, dinamica a tratti spaventosa e randagia, un vero colosso demografico ed economico degno della membership BRICS. San Paolo va esplorata con estemporaneità, per poterne apprezzare la casualità con cui è stata costruita, per poter intercettare quanto c’è al di là dell’apparente snobismo paulistano, che sempre invidierà l’esotismo di Rio. Se la bellezza di Rio è visiva, colorata, senza tempo, San Paolo rappresenta l’impresa, l’idea, lo spirito del bandeirante (pioneire), l’ambizione, come quella di Martinelli, che volle costruite l’edificio più alto di tutti. “Qui tutto funziona” dicono i paulistani. Tuttavia, l’intellettuale Nelson Rodrigues definisce il paulistano e in parte il brasiliano stesso come un “narciso a testa in giù”. Parla del complesso del complexo de vira-lata (cane bastardo), nato in ambito calcistico ma poi allargato al resto del contesto. Il brasiliano sostanzialmente sputa sulla propria immagine, non trova pretesti personali o storici per l’autostima.

E’ vero, mi hanno raccontato che San Paolo è cresciuta nel pensiero storico europeo, sempre rincorrendo il modello statunitense. E ancora oggi continua sempre correre, nonostante il transito cittadino, nonostante non sappia bene a che modello stia ora aspirando. Ma in fondo, nella luna calante dell’Occidente, San Paolo non è forse l’espressione del quesito esistenziale di ogni grande metropoli e Paese sul panorama globale?
E allora, in fondo, siamo tutti paulisti!










