Beirut lungo la Green Line

Manouche?!” “How don’t you know it? It is religion here in Lebanon”, esclamò il barista del Cafè Em Nazih del Saifi, il nostro ostello.

“Manouche, and Fairouz in the morning”. Era il classico barista sorridente, l’early bird amichevole che rallegrerebbe persino le difficili mattinate ipotese della sottoscritta, il tipo che si ricordava quotidianamente che al terribile caffè e tè preferivo un succo Tropicana fresco, incoraggiandomi ogni mattina ad assaggiare una pietanza diversa dal menù. Veniva dalla Siria, uno di quei 2 milioni di profughi siriani che il Libano (6 milioni di abitanti) aveva accolto con lo scoppio del conflitto. Era uno dei fortunati ad aver trovato impiego in un paese già dilaniato dalla crisi economica, e per questo lo amava. Ma gli mancava Damasco. Quello che so delle colazioni tipiche libanesi lo devo a lui: il foul è una purea di fave, aglio, cipolla, limone e prezzemolo servita in un bagno di olio d’oliva; il fatteh è una purea di ceci, yogurt, menta, aglio e pinoli, servita nel solito bagno d’olio; il labneh è yogurt greco colato con aggiunta di sale, menta e olio; il famoso manouche, nonché lo street food adorato dai libanesi, è una sorta di pizza condita con semi di sesamo, timo, zaatar (mix di sesamo, summacco, sale, origano, cumino) o carne o formaggio. Per quanto riguarda invece Fairouz, parliamo della cantante libanese cult del mondo arabo, con più di cinquanta milioni di copie dei suoi album venduti in carriera. Già in Giordania ne avevo sentito parlare, è la madre abituale delle mattine arabe: ogni caffè, radio, ristorante, talvolta persino ufficio pubblico, suona le melodie di questa donna, di cui mezzi ristoranti libanesi in tutto il mondo portano il nome.

Beirut lungo la Green Line
Beirut lungo la Green Line

Dicevo, il Saifi era (ed è, o quel che ancora ne resta) situato nel quartiere cristiano di Gemmayzeh, Achrafieh. Quel 4 agosto mattina io e Mary avevamo deciso di percorrere senza una meta precisa la città di Beirut, trasversalmente a tutti i quartieri principali. Prima di dirigerci verso la Linea Verde, la famosa strada di demarcazione che durante la guerra civile libanese separava Beirut est, cristiana, da Beirut ovest, musulmana, ci fermammo di fronte a un complesso architettonico di particolare rilievo, chiuso all’interno di una cinta muraria e di un fitto palmeto. Era Palazzo Sursock, in via Sursock e situato di fronte al museo Sursock. Avevo letto un articolo di Vogue, che lo definiva un “grandioso decadente mistone tra un palazzo veneziano, le Mille e Una Notte e una villa in Costa Azzurra in coppa a Posillipo”. Per incontrare il palazzo di Yvonne Cochrane Sursock, la novantasettenne “dama del Libano”, avevamo dovuto raggiungere il dorso di una collina che domina la città di Beirut.

Beirut lungo la Green Line

Era l’unico palazzo a non essere mai stato bombardato durante la guerra civile. Lady Cochrane, greca ortodossa, cugina di Isabelle Sursock Colonna (amante di Galeazzo Ciano), nipote di George Sursock, uno dei finanziatori del canale di Suez (nonché costruttore del palazzo), figlia di Alfred Sursock, ambasciatore della Sublime Porta a Parigi. I Sursock erano originari del nord della Siria, da cui il cognome, una corruzione di Kur Isaak, Signore Isacco, ed erano emigrati vicino a Byblos (odierna Jbeil, Libano) dopo la presa della capitale bizantina. Beirut divenne ottomana dal 1516, assistendo a una graduale fioritura economica basata sugli scambi con diverse città del Mediterraneo, in particolare con Venezia. Evolvendo in proprietari terrieri anche in Palestina nel corso dei secoli, successivamente i Sursock entrarono in causa con lo Stato d’Israele per la requisizione di due proprietà a Giaffa (Tel Aviv). I Sursock, Lady Cochrane in particolare, era considerata la governatrice occulta della città: si dice che gli ufficiali del KGB solessero rendere omaggio a casa Sursock, una volta messo piede in Libano.

La sua casa, garante di alcuni Guercino, Guardi e Corcos originali, non era sfortunatamente visitabile. Come due scappate di casa, sostammo di fronte al cancello suonando due volte il campanello, senza alcun riscontro che quello di due gattini. Peccato, avevo sentito parlare di Lady Cochrane per il suo mecenatismo, aveva adibito il Museo Sursock alla ricostruzione della memoria del suo amato paese. Il percorso museale riproduceva il suo punto di vista sulla città: un tempo una città-giardino ottomana, Beirut avrebbe dovuto cercare di tornare a quell’ideale piuttosto che puntare a una sorta di versione medio-orientale di Hong Kong, tutta grattacielo e vetrate. “L’architettura brutalizzante”, ne era convinta, era in parte responsabile della cementificazione del Libano.

Beirut lungo la Green Line

Piazza dei Martiri

Saremmo tornate ad Achrafieh solo sul fare della sera, dopo la nostra tappa dai Sursock scendemmo verso Beirut Ovest.

Prima fermata: Piazza dei Martiri. Situata al centro della Linea Verde, questa piazza è la principale sede di scontri in tempi di guerra, terreno di dimostrazioni in tempi di pace, oggi suolo di incontro tra libanesi di ogni credo (avevo perso il conto quanti fossero in tutto? Cristiano maroniti, cristiano ortodossi, drusi, musulmani sunniti, sciiti, cristiani di chiesa armena, sicuramente dimentico qualcosa). Ad ogni modo, Piazza dei Martiri è il tradizionale punto di incontro delle grandi occasioni civiche, che si tratti di spari o abbracci.

In realtà, questa piazza mi sembrava piuttosto brutta. C’era solamente una statua bronzea al centro e la sede di qualche banca. E poi si, come già mi era capitato in Israele, era il classico luogo in cui il suono del muezzin si alternava al suono delle campane. La Moschea sunnita di Al Amin è infatti di fronte alla Cattedrale Maronita di San Giorgio (di epoca ottocentesca). I due edifici sono incorniciati dagli scavi degli antichi bagni romani, del cardo massimo (ah dimenticavo, Beirut è una città con più di 5000 anni di storia) e dal palazzo dell’attuale governo, arroccato su una collina. Per finire, in quest’urbano incrocio multiculturale incappammo nella prima stazione di controllo libanese, distinta dal caratteristico cedro e dai colori rosso e bianco. Piazza dei martiri è in fondo così pacifica?

Scendemmo nella cosiddetta Downtown (detesto questa parola) per immergerci nel Beirut Souks, un ibrido tra un centro commerciale open air e degli Champs Elysee dall’allure arabico, un’ode al consumismo occidentale in grande stile: boutique d’alta moda, food court, cinema, marchi delle consuete catene di abbigliamento, i vari Starbucks, Costa, Caffè Nero. E’il nuovo quartiere commerciale disegnato dall’architetto spagnolo José Rafael Moneo Vallés per Solidaire, la “Societé libanaise de rencostruction” creata dall’ex premier Rafiq al-Hariri, assassinato con un’auto bomba nel 2005. In realtà l’architettura mi piaceva molto, era davvero elegante. (Ma non avevamo appena attraversato una stazione dell’esercito?)

Dell’antico quartiere levantino rimaneva soltanto un grande palazzo, di fronte ai negozi e a un avveniristico centro commerciale in costruzione (l’ultimo progetto di Zaha Hadid). L’edificio, vuoto, crivellato di colpi, giace oggi a memoria dei combattimenti avvenuti nella guerra 1975-1989 (150mila morti, 900mila emigrati, due milioni di profughi), la stessa che ha lacerato quella che un tempo era la meravigliosa “Svizzera del Medio Oriente”.

Beirut lungo la Green Line

Rotolammo verso la Zaitunay Bay, una marina futuristica con i vari grattacieli del Kempinsky, Hilton ecc.. una serie di bar aggettanti sulla schiera di barche e yacht, una spiaggia artificiale con piscine. Tutto molto carino, lindo e simile a Dubai. Artificioso? Mah. La marina era affollata, i locali pieni di libanesi sicuramente benestanti, le ragazze (con qualche “moderato” ritocchino estetico un po’ sparso) posavano per le rituali foto da instagramers sulla piscina pubblica, appagando gli sguardi di palestrati diffusi. In fondo era solo ciò che si vedeva in molte parti del mondo, anche se Lady Sursock assocerebbe sicuramente questo surrogato emiratino alla “brutalizzazione” di Beirut.

Più avanti finalmente ci incamminammo nella famosa Corniche, il kilometrico lungomare di Beirut, un altro mondo. Un bancone sul Mediterraneo, dove il salso si fonde con l’odore del gasolio e il baccano del traffico. Le case erano più fatiscenti, l’atmosfera più informale. Un attimo dopo ci venivano incontro i venditori ambulanti fino a quando..wow! Un gruppo di bimbi scalzi si divertiva a tuffarsi dalla banchina a strapiombo sul mare. La banchina era parecchio sopraelevata, il mare piuttosto mosso, il fondale roccioso. Ma una volta catturato il nostro interesse, i bimbi si divertirono a intrattenerci, mostrandoci i loro tuffi chilometrici in pieno centro. Ciò avveniva esattamente pochi metri prima della sede dell’Università Americana di Beirut. La prestigiosa università privata, una sorta di città-stato incastonata nella parte musulmana della città, fu fondata da dei missionari protestanti nel 1866, sebbene lo statuto dell’ateneo si fondi da sempre su rigorosi principi di laicità. Solo osservandone le dimensioni su una qualsiasi mappa di Beirut, si nota che l’istituzione è una delle colonne portanti della città. In Medio Oriente esiste il detto che ogni libanese abbia primo o poi studiato all’American..

Risalendo dalla Corniche ci affacciammo a una delle entrate dell’Università, o probabilmente a uno dei retri. Non si capiva bene dove iniziasse Hamra, il famoso quartiere della movida di Beirut, e dove terminasse l’Università. Fatto sta che vagavamo in mezzo a edifici di antica eleganza, a sedi di alcuni ministeri e ambasciate, a volte in mezzo a complessi ancora butterati dalla guerra, a piazzole dimesse e desolate abitate dai gattini randagi. Cercavamo Hamra, la sua la strada principale, Hamra Street. Esisteva davvero?

[continua..]

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