Treno notturno Baku-Tbilisi

La prima volta che andai in Georgia fu nel giugno 2018…

Era una serata primaverile e fresca, a Baku. Si poteva ancora cenare con la finestra aperta in città, prima del soffocante caldo estivo. La brezza frizzantina della metropoli azera ventilava il nostro appartamento, il vociare dei bimbi del nostro quartiere animava la notte, mentre facevamo i bagagli. In corpo avevamo solo una febbricitante curiosità, la frenesia della spedizione, un eccitante timore dell’ignoto.

Andai con Elena, a Tbilisi, quella volta. La mia coinquilina, compagna di studi russisti e collega di lavoro a Baku. Quella notte partimmo dalla buia stazione di Baku alle 21.40. Da tempo avevamo deciso di intraprendere la tratta notturna del treno Baku-Tbilisi, figlie delle accademiche suggestioni post-sovietiche, memori di lunghe bibliografie russe a celebrazione del fascino del treno sovietico, quasi personificato, onnipresente nei vari Tolstoj, Ĉechov, Dostoevskij, e non solo. Ci avrebbero atteso tredici ore di lungo viaggio. Sulla soglia del treno ci accolse la nostra Caronte, un’azera capotreno autorevole, salda.

Viaggiavamo in una cuccetta da quattro persone. Nella nostra carrozza circolavano comitive di polacchi festosi, azeri, ucraini, ed infine, una coppia pietroburghese. Si chiamavano Gianna e Nikolaj, i nostri compagni di viaggio. Una bellissima donna bionda dagli occhi azzurri, di origini siberiane, e un mastodontico uomo russo, buffo, spiritoso, dolce, due pietroburghesi della classe media. Erano altrettanto diretti a Tbilisi, e avrebbero poi proseguito per l’Armenia, come da copione. La rigorosa legislazione azera mal accoglie alle frontiere i turisti provenienti dalla confinante Armenia, per le note ragioni relative all’annoso conflitto del Nagorno Karabakh, tant’è che i viaggiatori del Caucaso adottano normalmente l’itinerario secondo l’ordine dei nostri compagni di cuccetta.

Parlammo per buona parte della notte con Gianna e Nikolaj, prima di farci cullare dalle braccia di Morfeo, nel cuore della steppa azera.. della marmellata di ciliegie bianche assaggiata nella città vecchia di Baku, della città natale di Gianna, Surgut, di Pietroburgo, della Russia, dell’Italia, di quando in Crimea Gianna decise di avere un figlio da Nikolaj, dell’amore per Putin, di Berlusconi, del governo italiano appena nato, delle nostre culture a confronto, di viaggi, di Eros Ramazzotti, degli imminenti mondiali di calcio, dei campioni di pallavolo Ivan Zaytzev, Natalya Goncharova, Earvin Ngapeth e dell’arrivo di quest’ultimo allo Zenit Kazan, squadra campione d’Europa. Proprio Nikolaj mi raccontò che l’odierno sindaco di Tbilisi era un ex giocatore del Milan, Kakhaber Kaladze.

Di tanto in tanto pensavo alla dedizione con cui si adoperava all’occorrenza per aiutare la moglie a raggiungere il suo letto sopra la testa di Elena. Si era sobbarcato tutte le valigie, possedeva un largo sorriso, era follemente innamorato di sua moglie. Gianna era una donna forte e curiosa, loquace e ironica. Fu una notte diversa, nella profonda oscurità del paesaggio piatto, uniforme ed inquietante, in cui il nostro convoglio procedeva lentamente.

All’indomani raggiungemmo il confine, erano le sette di mattina. A svegliarci fu la tipica canzone pop azera. Non smetteva più, tutto il treno era in piedi, Gianna chiedeva che a cantare fosse almeno Eros Ramazzotti. La capotreno circolava freneticamente per svegliare i restanti passeggeri. La coda ai servizi era chiassosa e snervante, il caldo iniziava a farsi sentire nel corridoio sovraffollato. Dopo un’ora di controllo passaporti eravamo in Georgia, finalmente. Il confine georgiano appariva subito nuovo all’orizzonte: l’icona di una piccola cappella ortodossa ci diede il benvenuto appena fuori dal treno in quella mattina soleggiata, già calda, quando scendemmo per prendere una boccata d’aria. Non era nulla di ché, ma da subito iniziai quindi a sentirmi a casa, nel grembo della cristianità.

Treno notturno Baku-Tbilisi

Sullo sfondo qualche mucca e degli edifici di fabbriche sovietiche semi abbandonati, un baracchino generico, che già esponeva fieramente le prime bottiglie di vino georgiano, presenza ubiqua nel paese. Provai un caffè, classificandolo come il peggiore mai assaggiato, ma ne fui contenta. I polacchi bevevano la birra, sfamavano i cani randagi. Dissi due parole alla capotreno arcigna, la quale mi prese in simpatia e pensò di farmi cosa gradita servendomi un caffè latte diabetico; l’aveva probabilmente riempito di quei cubetti di zucchero che gli azeri succhiano sul palato prima di bere il çay. La festa continuava nelle cuccette adiacenti, dove gli azeri bevevano il çay mattutino al suono delle loro casse portatili, che urlavano musica tradizionale. Ripartimmo. I controlli in entrambi i confini erano durati due ore. Saremmo giunte a Tbilisi un’ora dopo, in generoso ritardo. Salutammo Gianna e Nikolaj, che ci invitarono a Pietroburgo come ospiti, quando un russo invita в гости (ospite), è una cosa molto seria. Fu un bell’addio, o forse un arrivederci.

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