A Tbilisi

Eravamo in cerca di qualcuno, Elena ed io, quella mattina appena scese nella caotica stazione dei treni di Tbilisi. Così d’un tratto comparse Levani. Il suo cognome finiva in “-shvili”, ed era solo uno dei tanti a terminare con questo suffisso (“figlio di”). Un trentenne barbuto georgiano, massiccio, dagli occhi chiarissimi e decisi, sfrontati. Levani è una guida di professione, conosciuto grazie all’intermediazione di alcuni amici comuni, e quel giorno ci avrebbe mostrato Tbilisi. “Volete disonorare un vero uomo caucasico?” chiedeva, quando cercavamo di impedirgli che pagasse tutto per noi, in nome della sacra ospitalità georgiana. Levani è un georgiano passionale, sorridente, premuroso, forte, schiettamente autentico, a volte quasi selvaggio. Amante del calcio e delle donne, “delle belle donne” (specificava), assecondava le sue sensazioni non negandosi numerosi apprezzamenti. Aveva vissuto in Italia per molto tempo, in Calabria, e spesso trascorso le vacanze estive a Lignano, e perciò la adorava. Quasi quanto la Georgia. Si definiva un patriota. L’unico della sua nuclear family ad essere rimasto a vivere nella sua terra, “noi georgiani ci spargiamo in giro per il mondo”, diceva. Quando scoppiò la guerra in Georgia nel 2008, a causa dell’autoproclamazione di indipendenza di Abchazia e Ossezia del sud, province ancora oggi non riconosciute, Levani tornò dall’Italia in macchina con tre connazionali, attraversando l’Anatolia, passando per il confine turco-georgiano a Sarpi, e poi proseguendo verso casa, per arruolarsi contro i russi.

A Tbilisi

Appena dieci anni fa, i georgiani, “forti” della leva obbligatoria prestata in gioventù, erano pronti a difendere la loro terra contro un nemico gigantesco, con un folle e incosciente coraggio nel loro corpo, e qualche arma fornita dagli americani. Quella volta i carri armati russi si fermarono a Gori, non venne sparato un colpo, o quasi, gli americani avevano smesso di contribuire alla causa quando capirono che non valeva la pena investire denaro in un conflitto che avrebbe riguardato solo una manciata di abchazi, circa 200.000. Ma i georgiani avrebbero combattuto, irragionevolmente, con ardore. “Ero tornato per sparare alle gambe ad a uno di quei russi”, disse Levani. Lui è cosi, vigoroso, spregiudicato, a volte brutale, fiero di sé stesso, della sua famiglia, di cui ci avrebbe a lungo raccontato, della sua terra.

Iniziammo la nostra visita da Rustaveli Street, una sorta di Prospettiva Nevskij pietroburghese. Un viale di respiro europeo, ombreggiato da platani, decorato da eleganti palazzi di fine Settecento: l’Opera, la Biblioteca nazionale, l’Opera delle Scienze, l’ex palazzo dei vicerè, il Museo Nazionale, il Parlamento, qualche sontuoso hotel. La città era stata turca fino al 1783, quando col trattato di Georgievsk divenne russa. Rustaveli street e il quartiere zarista di Tbilisi sono tutt’oggi l’immagine della tipica architettura post-petrina e pietroburghese, commissionate dai vicerè del Caucaso che intendevano trasformare lo stile persiano della città in metropoli di stampo europeo. Gli architetti che costruirono Tbilisi in quel periodo provenivano dalla Russia zarista; erano gli stessi italiani della scuola di Quarenghi, che avrebbero arricchito i viali georgiani di edifici neoclassici, esportando l’italianità fin qui, tant’è che sui marciapiedi di alcune vie compare di tanto in tanto una scritta risalente proprio a quell’epoca: “Salve”.

Passammo piazza della Libertà, centro nevralgico della città, e approdammo nella vecchia Tbilisi ottomana. Variopinta, fatiscente, decadente, vissuta. La città vecchia è l’emblema del secolare sincretismo religioso georgiano. Una accanto all’altra convivono la Sinagoga e l’adiacente quartiere ebraico, la Chiesa armena di San Giorgio, la Moschea del quartiere musulmano, e una miriade di chiese ortodosse georgiane. Il Cristianesimo fu dichiarato religione di stato nel 337 d.C., con la chiesa georgiana che si proclamò autocefala, rendendosi autonoma dal Patriarcato di Antiochia, già nel V secolo. Ovunque in città campeggiano l’effigie di San Giorgio, patrono del paese, da cui deriva il nome Georgia, e la croce arcuata a tre bracci della chiesa autocefala georgiana: la leggenda narra che il simbolo della chiesa georgiana sia la croce arcuata perché pare che nelle campagne i contadini utilizzassero proprio le croci per sorreggere il peso delle viti.

La chiesa più antica della città è Anchishkati, risalente al VI secolo d.C, la più suggestiva. Accanto alla sede del patriarcato georgiano, si staglia l’eden di questa piccola chiesa, mistica e silenziosa, affiancata da un piccolo ritrovo di artigiani.

Per entrare dovetti coprire il capo, e così tutte le donne. C’è qualcosa di estremamente spirituale nell’ortodossia. Nel silenzio dei luoghi di culto, nella lentezza delle celebrazioni rituali, nella venerazione delle icone, nel profumo dell’incenso, nelle snelle candele in cera che affondano tra la sabbia dei candelabri votivi. Le iscrizioni georgiane concorrono ad abbellire questa gemma sospesa nel tempo, decorata da affreschi e pale antichissime.

Mentre la Cattedrale di Sioni ci parse tutt’altro che autentica, ci soffermammo invece sulla simbolica statua del Tamada, nel centro della capitale: il tamada equivale in Georgia al simposiarca greco, ha il compito di sedere a capotavola e di indire i brindisi durante la tradizionale supra, il luculliano banchetto georgiano di origine ottomana che si tiene in occasione di feste o funerali. Il tamada deve vantare grandi doti retoriche e manifestare una proverbiale resistenza all’alcol.

Proseguendo nella downtown ci inerpicammo nelle stradine vibranti della città, in cui di giorno vivono indolentemente gli stessi locali caratteristici che la notte si trasformano in discoteche a cielo aperto. C’era un’atmosfera molto goliardica in quella città. A partire dai colori dei churchkela (caramelle allungate tipiche georgiane fatte di noci, mosto d’uva e farina), degli edifici, azzurri, rosa, gialli, verdi, esteticamente cugini dei konak turchi e aggrovigliati in antiche vie malridotte. La Turchia è palpabile anche in tutto il quartiere musulmano, dove giacciono semplici pasticcerie di bakhlava, di fronte all’antico Hamam del periodo ottomano.

Poco più avanti scalammo la città vecchia, raggiungendo tramite funicolare la Fortezza di Narikala, che dall’alto sovrasta Tbilisi specchiandosi sul fiume Kura.

Qui l’enorme statua di Kartlis Deda (20 metri di altezza) regge una spada e un calice di vino, l’una per difendersi dai nemici, l’altra per accogliere gli amici della Georgia. Da questo punto panoramico ammiravamo il chiasso di questa antica città, cercando di comprendere che paese fosse la Georgia, una terra caucasica incastonata tra Turchia, Russia e Medio Oriente, figlia di tutte e di nessuno, turca negli usi e negli edifici del centro vecchio (caffè e shisha), cristiana di culto, europea di aspetto e mentalità, sovietica in qualche anfratto delle periferie, nella vodka, nello kvas (bevanda fermentata di origine russo-ucraina), nell’intramontabile utilizzo della lingua russa, che tutti conoscono e in pochi praticano, nel fantasma di Stalin, nato a Gori, e oggi esorcizzato nelle calamite Made in China disseminate nella città. Di Tbilisi avevo subito sentito il calore di casa, il sorriso dei suoi abitanti, la libertà di una giornata spensierata a oziare con un calice di vino e una deliziosa tavola imbandita all’ombra di un albero, dopo un mese in Azerbaijan, in mezza giornata in Georgia mi sembrava di riavvicinarmi alla mia terra.

A Tbilisi

Ma cos’è la Georgia, nel 2018?

Il Paese lotta per la sua identità, dopo secoli di dominazione e di influenze che l’hanno arricchita e segnata, ma mai fagocitata. Solo nel 1918 si rese indipendente assieme ad Armenia e Azerbaijan, prima dell’arrivo sovietico. E’ geograficamente sorella di Azerbaijan, Turchia e Armenia, ma incredibilmente diversa, mite, solitaria, indomita, amante della vita, nel piacere della tavola e della degustazione del buon vino, nato qui, proprio in Georgia, tra il 10.000 e 9.000 a.C. Oggi questo paese cerca di ritagliarsi uno spazio nel mondo, trainato dal partito Sogno Georgiano, fondato dal magnate Bidzina Ivanishvili, lo stesso che chiamò l’ex calciatore del Milan Kakhaber Kaladze, attuale sindaco di Tbilisi, a ricoprire il ruolo di vice-premier. La Georgia beneficia dei fondi della NATO, della Politica di partenariato orientale, attende di entrare nell’Unione europea, odia il vicino russo, pur essendone ancora intrinsecamente legata. Si appella al modernismo della capitale e della modaiola località balneare di Batumi per avvicinarsi all’Occidente, mentre nelle strade, nei mercati e nei quartieri “al di là della Kura” vive la Tbilisi spartana e decadente, caucasica, malinconica e semplice, reduce da ottant’anni di comunismo e di un passato gigantesco.

A Tbilisi

Di questa realtà ci parlò Levani. Ci raccontò dei valori della sua gente: ospitalità, famiglia, onore. Ci raccontò dei ricordi sulla sua famiglia, della sacralità attribuita ai legami famigliari. Del rapporto con le donne, e del rispetto conferito all’integrità della figura femminile nelle conversazioni tra uomini. La donna è “sacra”, e per questo deve essere protetta, aiutata, preservata. Un uomo georgiano non andrebbe mai con la sorella di un amico. Tutto ciò suonava strano a me ed Elena, due giovani millennials imbevute di valori occidentali, sogni di emancipazione gender equality e quant’altro.

Ci raccontava che le donne in Georgia si sposano e figliano attorno ai venticinque anni, poi continuano a lavorare, o forse smettono. Le nuove generazioni stanno al passo con un progresso che filtra lentamente attraverso la pellicola caucasica, viaggiano in tutto il mondo esportando la gioia georgiana, parlano normalmente tre lingue (georgiano, russo, inglese) e spesso anche una quarta o quinta. E nonostante ciò, mantengono le loro tradizioni. Di questo parlavamo io, Levani e Elena, fino a quando sul fare della sera non arrivammo a una locanda sulla città alta, fronte fiume, da un oste un po’ strambo. Eravamo finite in una tipica enoteca georgiana, dove l’oste serviva vini di sua produzione e di altri venditori locali. Era un amico di Levani. Ci piazzammo in una terrazza sul fiume aspettando di vedere il tramonto calare sulla fortezza di Tbilisi. Ci era stato assegnato un tavolino spartano, con un’adorabile tovaglia a quadri rossi e bianchi vagamente trasteverina.

Quella sera c’era anche musica dal vivo, e dei giovani suonavano il tradizionale panduri. Fu una serata che ricordo con nostalgia. Il rozzo e amichevole oste ci servì a flusso continuo portate di shashlik, pomodori e cetrioli con l’immancabile salsa di noci e piatti di khachapuri. Lo shashlik è carne allo spiedo, di manzo, pollo o montone. Il khachapuri è assieme ai ravioli, i khinkali, il piatto nazionale della Georgia. E’una paradisiaca e burrosa focaccia ripiena di formaggio (kachapuri imeruli) o di formaggio e uova (kachapuri adjaruli)Il suo variante leguminoso è il lobiani, una focaccia ripiena di pureè di fagioli.

A Tbilisi

L’oste ci aveva illustrato i diversi tipi di “chacha” (brandy georgiano): quella “da donne” e quella “da uomini”. Il caso volle che quella sera, dopo quatto bicchieri di vino bianco e una cena esagerata, si finisse a bere tutti insieme una serie di bicchierini di “chacha da uomo”. A brindare con noi c’erano delle moscovite non più lucide. Sicuramente non dimostrammo una resistenza alcolica pari ad un tamada di tutto rispetto, ma nel delirio glicemico di una cena gustosa, quella sera pensai per la prima volta dopo un mese di lontananza da casa, che si può raggiungere la pace in qualsiasi angolo di mondo, anche in pergolato su un fiume di cui non avevo mai contemplato l’esistenza, cullati dalla tranquillità di una città centenaria, in compagnia di giusti testimoni, altrettanto intenti a voler vivere con la stessa intensità, una consueta, molle, placida, libera, serata primaverile. Non avendo mai provato questa sensazione nel Caucaso fino ad allora, non avrei mai pensato di esserne sorpresa invece in un luogo praticamente equidistante da Trebisonda, Yerevan, Baku, Grozny.

Il mio primo mese di permanenza nel Caucaso era stato difficoltoso e ricco di contingenze. Ora sembrava finalmente prendere una svolta. Fino a quando non ci rendemmo conto che era il momento di fare ritorno a Baku, quella notte, col volo dell’una del mattino. Stavo per uscire dall’osteria intascandomi inconsciamente un libro di cucina georgiana, sotto effetto della chacha da uomo. Toccava a noi ora: eravamo io ed Elena, con gli occhi incrociati, in direzione aeroporto, accompagnate da un georgiano ormai inarrestabile e determinato a giocarsi tutte le sue carte.. Ma questa è un’altra storia.

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