Ankara, capitale della Turchia


“Ssi..solo dello yogurt può bastare..mi creda. Va bene! Proverò anche un biscottino, grazie. Per favore, si, ancora del caffè, prometto sarà l’ultima tazza.”

Ankara, capitale della Turchia

Sono alla sala colazione del Neva Palace Hotel, comunico a gesti con una ragazza gentile che invade letteralmente il mio tavolo con un vassoio molto ricco. Symit, uova, confetture, grissini, frutta fresca, borek ancora fumanti.. tutto è pronto per farmi consumare il rito della kahvalti, ma alle 8 di mattina riesco solo a impressionare persino i turchi chiedendo l’ennesima tazza di caffè.

Oggi è una di quelle giornate che non vedo l’ora di vivere. Mi incontro con i clienti turchi alle 17, quindi ho tutta la giornata a disposizione per esplorare una città che non ho mai visto. Sebbene la prigione di Ulucanlar e i musei della rivoluzione e delle civiltà anatoliche sembrino essere le attrazioni principali del posto, in vena di una sana dose di culto della personalità decido di dirigermi subito verso l’Anitkabir. Ossia il gigantesco, opprimente e allo stesso tempo sacrale, Mausoleo del gazi Mustafa Kemal Ataturk. La tomba del suo delfino Ismet Inonu è quasi ridicola di fronte alla magnificenza del grande eroe militare, fondatore della Turchia, ma davvero.. padre dei turchi?

Anitkabir

Arrivo all’Anitkabir in piena commemorazione militare, l’accesso al mausoleo è blindato dall’esercito, una folla di astanti assiste in religioso silenzio. Più tardi mi spiegano che alcuni deputati del principale partito di opposizione, il CHP, il partito socialista laico dato alla vita proprio da Ataturk, hanno organizzato la ricorrenza. In tempi di elezioni si brandiscono i simboli. D’altronde, chissà entro il prossimo giugno 2023 cosa si inventerà il longevo sultano.

In breve, ciò che più o meno successe è quanto segue: con Istanbul sotto occupazione britannica, l’Asia minore spartita tra i migliori offerenti a Sevres (1920), i greci provano ad arrivare a qualche manciata di km da Ankara. L’affronto è troppo grande. Il museo dell’Anitkabir ripercorre le tappe della remuntada dei nazionalisti turchi, dalla battaglia di Sakarya, all’esilio del sultano collaborazionista con le potenze occupanti, fino alla proclamazione della nazione turca. Un anno più tardi, Ataturk sfalda strutturalmente quel che rimane dello stato ottomano, sgretolando la rete di privilegi che gli aristocratici ottomani traevano dalla prossimità al sultano,  promulgando una costituzione laica, abolendo il Califfato, spogliando i cittadini turchi del fez, proibendo il velo femminile nelle istituzioni scolastiche e negli uffici pubblici, introducendo il suffragio universale, appropriandosi dei caratteri latini (alcuni turchi in un batter d’occhio non riescono più a leggere), codificando la lingua turca, ricorrendo a frequenti francesismi laddove le lacune della lingua lo rendono necessario (Ataturk padroneggia il francese). E nell’era in cui gli imperi si sfaldano, l’urgenza di entrare nelle famiglie degli stati nazionali chiede di agire, e in fretta, pena l’estinzione. Una vera fuga in avanti, non senza spargimenti di sangue e shock socio-culturali. Gli armeni, greci, ebrei, e qualsivoglia minoranza ottomana diventano una minoranza turca, ancora oggi molti di loro non sono ritenuti sufficientemente turchi e vengono definiti gavur (“infedeli”). E i vecchi signori ottomani, custodi delle tradizioni centenarie, che ne sarebbe stato di loro? Ebbene la Turchia, qualsiasi cosa fosse, nasce grazie all’impresa del gazi, libera dallo straniero. Questo grande merito storico, attuato repentinamente e compiuto con raffinata genialità porta oggi Ataturk ad essere per tutti, indistintamente, quasi un semidio. Chi oltraggia alla sua memoria può tutt’ora essere destinato al carcere. Nel bookshop al termine della visita il suo faccino d’angelo è ovunque, su accendini, penne, sottobicchieri, tende…il 2023 sarà l’anno del centenario della Repubblica e forse anche ai grafici di questi sofisticati gadgets Ataturk sembra aver dato alla testa.

Prima di togliere il disturbo, assisto come tutti gli astanti alla cerimonia solenne. Il silenzio d’ordinanza regna sovrano, io come tutti i cittadini turchi me ne sto immobile, giacendo nella piana dell’Anitkabir, infreddolita dal vento tagliente e riscaldata solo da una flebile luce di novembre. Il paesaggio è arido, ocra, inospitale. Ankara risiede nel cuore dell’Anatolia, e il monolitico Anitkabir non può che incarnarne l’anima. Chissà se ad Ataturk sarebbe piaciuto. L’unica nota di colore è una imponente, svolazzante, bandiera rossa turca. Il suo movimento ondeggiante è l’unico corpo in movimento, stride con l’immobilità delle forze armate, che presidiano la sepoltura del leader. L’Anitkabir è forse la metafora della Turchia, che custodendone il fondatore, racchiude l’irresistibile fascino del paese: la grandezza, il monito del passato come garanzia del futuro, magnificato dalla protezione del potere, controverso, opprimente, necessario delle forze armate. Il contrasto della luce di un genio della storia, che convive con l’oscurità dell’incertezza, dell’inquietudine, della tensione tra le innumerevoli frizioni di un territorio stretto tra Oriente e Occidente.

Decido di andarmene. In confronto all’Anitkabir, un concentrato di segni e significati, nella semiarida Ankara nulla è un granchè. Visito la Cittadella fortificata, la parte più antica della città. Dal VIII secolo a.C frigi, galati, romani, bizantini, selgiuchidi e ottomani si sono susseguiti marcando il territorio su queste alture, oggi rimane qualche caravanserraglio, un castello molto rimaneggiato, e delle case tradizionali convertite in colorati ristoranti e negozi di antiquariato. Così come a nessuno importa più di tanto dei resti romani rinvenuti in mezzo alle strade della downtown, a me poco importa del brulicante e rinnovato quartiere di Hamamonu, che oltre a sembrare molto integralista non mi racconta alcunché. Più o meno infastidita torno nei pressi dell’hotel in zona Kizilay, per pranzo vado al Kakule Kahve a fare la vera urban girl con insalata di hummus, estratto di frutta e caffè monorigine, in un locale perfettamente arredato all’ultima moda londinese. [continua..]

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