Sognando Beirut

“Comunque, il mio nome è Hassan”.

Volevo atterrare seduta vicino al finestrino, come spero di fare ogni volta che raggiungo una nuova destinazione. Così avevo scomodato il mio gentile vicino, quella notte in cui io e Mary partimmo alla volta di Beirut, il 2 agosto 2019.

Persa la coincidenza la notte precedente, passammo una giornata a Belgrado, circondate da libanesi che attendevano di rientrare, chi proveniente dall’Italia, chi dal Nord America, chi da chissà dove. Air Serbia ci aveva destinati al Crowne Plaza della capitale serba, dove iniziammo ad avere il tempo di scrutare i nostri futuri ospiti. Alcune famiglie parlavano solo in francese, altri in arabo, altri ancora solo in inglese. Un ragazzo proveniva dal Canada, e si accingeva a rientrare nel paese natale per la seconda volta nella sua vita, in compagnia del suo migliore amico canadese. Andava a trovare i suoi zii, che l’avrebbero prelevato in auto blindata una volta atterrato. “Se avete bisogno di un passaggio una volta atterrate, ricordate che in Libano esistono quattro tipi di taxi: quello ufficiale; quelli abusivi con targa rossa, che a suon di clacson vi caricheranno per qualsiasi strada di Beirut portandovi dovunque vorrete, a patto che condividiate la vostra meta con quella degli altri sconosciuti a bordo; gli abusivi con targa bianca, semplicemente delle auto private che si trasformano temporaneamente in taxi ad uso esclusivo; uber, che normalmente si paga solo in dollari”. Solo molti giorni dopo mi sarei quasi abituata a questa prassi.

Sognando Beirut

Poi, in aereo, conobbi Hassan. Lui parlava in italiano, aveva studiato a Pavia e ora si era trasferito a Trieste per lavoro. Ci capitò di conoscerci quelle due settimane l’anno in cui aveva deciso di trascorrere del tempo con la sua famiglia. “Vivo a Beirut, ma sono originario di Tiro, nel sud”, mi raccontava. Sorriso timido ma affettuoso, occhi neri dal taglio orientale, parlava di casa con un’espressione che avrei presto rivisto sul suo volto. La sua era sincera nostalgia mista a riserbo e rassegnazione. Ma subito avevo notato nei suoi occhi il segno di una generosa nobiltà d’animo. “In Italia mi scambiano per libico quando dico di essere libanese, sei la prima italiana che dimostra un sincero interesse per il nostro paese. Il turismo sta aumentando, anche se molto lentamente. Se proprio devo ricordare le volte che ho sentito parlare del Libano in Italia, me l’hanno sempre descritto come un paese di guerra.

Sognando Beirut

Normalmente spiego che la guerra è finita. Ma ad essere sincero con te, come vedrai il paese è tutt’ora un casino”. Gli chiesi se gli mancasse casa. Mi disse che gli mancava il suo villaggio nelle colline sopra Tiro, dove con la nonna aveva trascorso l’infanzia delle piccole cose, all’ombra dei folti alberi di arancio, nella pace lontana da Beirut. Non avevo voglia di rispondere alle domande sul mio conto, sorvolavo frettolosamente, troppo intenta a nutrirmi della vita altrui.

Piuttosto, cercavo di spiare fuori dal finestrino. “Certo, siediti pure. Non ti aspettare comunque una grande vista. Beirut è un grattacielo di cemento spuntato dopo la guerra.” La Guerra. La guerra civile? La prima guerra israeliana del 1982? O la seconda del 2006? Non ha importanza. Mi sarei presto resa conto che la guerra era parte integrante di quella città, quasi fosse una persona, un’abitudine, un gioco del destino con cui i libanesi sono periodicamente chiamati a convivere. Hassan avrebbe sostato a Beirut qualche giorno, poi sarebbe andato a Tiro dalla nonna. Forse saremmo andate con lui, o almeno così ci propose. Si offrì anche di darci un passaggio all’ostello giù in città una volta atterrate. Erano le tre di notte ed era la prima volta che visitavo il Libano, lì dall’altra sponda del Mediterraneo, in pieno Medio Oriente. Preferii salutarlo al ritiro bagagli del caotico aeroporto di Beirut, una sottospecie di cantiere. Prelevammo qualche lira libanese e ci affidammo al transfer dell’Università St. Joseph di Kaslik, che per vie traverse ero riuscita ad arrangiare grazie alla mediazione di mio padre, interpellato dai maroniti per il restauro di qualche monastero.

Ce la squagliammo in ostello. La mia compagna di viaggio era sicuramente diversa da me. Avevo pianificato ogni tappa del nostro viaggio per i giorni a venire. Non so per quale motivo ma ogni volta che visito un luogo per la prima volta mi affanno a doverne vedere ogni angolo, a dovermi ingozzare di quante più emozioni e informazioni possibili, quasi non dovessi farci mai più ritorno. Mary non aveva pianificato nulla, la sua filosofia di viaggio prevedeva non tanto la visita di luoghi o attrazioni, ma la condivisione di esperienze, l’ascolto, l’abbracciare il corso imprevedibile degli eventi. Ad accomunarci era la nostra formazione classica, accademica, la spiccata propensione al viaggio e alla ricerca della conoscenza, la curiosità. Nel mio caso, la curiosità si convertiva in febbrile desiderio di esplorazione, compresso da una razionale consapevolezza che spesso mutava in diffidenza. Nel suo caso la curiosità era apertura, fiducia. C’erano i presupposti per un viaggio d’eccezione, a partire dalla scelta del nostro soggiorno.

In quel frangente Mary azzeccò in pieno la nostra destinazione, si trattava del Saifi Urban Garden* di Achrafieh, uno dei pochi complessi abitativi d’epoca coloniale sopravvissuti alle guerre, oggi raggruppati in una serie di appartamenti, dormitori femminili e maschili, una scuola di arabo, il Cafè em Nazim, uno spazio bohemien dove avremmo fatto colazione il mattino e assistito a concerti di musica dal vivo la sera, e il rooftop bar Coup d’Etat al sesto piano (senza ascensore). Mary aveva vissuto sei mesi a Yerevan, e condiviso l’appartamento con un armeno libanese che ci aveva indicato questa soluzione. Non ero mai stata propensa alla vita d’ostello, tanto meno in un paese di cui non conoscevo nulla. Ma mi sarei presto ricreduta. Dopo una veloce registrazione, ci intrufolammo nel nostro dormitorio di soppiatto. La notte libanese era calda e afosa, il calore della cocente giornata trascorsa si mischiava al profumo della shisha, che ancora aleggiava nell’aria. In camera era terribilmente gelido, le nostre inquiline irlandesi erano probabilmente avvezze ad altre temperature e si congelavano con l’aria condizionata. Erano due letti a castello, scalai la mia montagna, spensi il condizionatore, e piombai in un sonno profondo.

* Il Saifi è stato distrutto dall’esplosione del 4 agosto 2020, trovandosi di fronte al Porto di Beirut. Non è più stato ricostruito.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Storia precedente

Nel solenne oblio di David Gareja

Storia successiva

Beirut lungo la Green Line

Latest from Blog

Treno Tashkent-Samarcanda

Stazione di Tashkent, 8.30 del mattino E’ un giorno così strano, questo. Sono in Uzbekistan per lavoro, pare che a breve salirò su un treno che mi porterà a conoscere un nostro

Paulista! Tudo acaba em pizza

Pizzeria Veridiana, quartiere Jardins, San Paolo Tudo acaba em pizza!, come per gli italiani si risolve tutto a tarallucci e vino, mi spiega il cameriere del Veridiana, un elegante locale annoverato tra le

Io sono uno yazida

E’ il penultimo giorno dell’anno 2024, sono sulla strada innevata per la città di Gyumri, l’antica Aleksandropol degli zar, oggi Armenia. Siamo nelle mani di Berj, un adorabile autista armeno di origine

The Oss Bar – essere un farang a Bangkok

“I am the Intrepid Traveler – Never a dull moment” Jim Thompson Sorseggio una tazza di tè nero del Siam al the Oss – un angolo di ineffabile estetica orientalista, riscaldata dai
Go toTop