Nel solenne oblio di David Gareja

Ogni giorno alle 11 in punto parte da Piazza della Libertà l’unica compagnia privata che accompagna i visitatori a David Gareja, la “Gareji Line”. Avevo individuato il mezzo attraverso dei forum su Facebook e Tripadvisor. Non servivano prenotazioni, bastava presentarsi all’appello. Un’accompagnatrice del tour operator aveva raccolto 25 lari a testa per l’intera escursione a/r. Eravamo circa una trentina di coraggiosi riunitisi al losco ritrovo mattutino, praticamente tutti under 40, e saremmo poi stati suddivisi in due navette. Ci attendevano due ore e mezza di viaggio verso il confine con l’Azerbaijan. Iniziammo ad intravedere la fine del nostro percorso quando gli insediamenti urbani lasciarono gradualmente il passo a un territorio collinare e verdeggiante, disabitato. La strada era ancora asfaltata quando sostammo per ammirare un’enorme vallata di cui non coglievamo la fine, un’infinta distesa di manto erboso che si perdeva nella lontananza dell’altopiano. Da lì in poi le colline sarebbero mutate in terreno battuto, buche, sentieri scoscesi, aride radure, via via sempre più desertiche, fino a diventare dei ciclopici canyon.

Nel solenne oblio di David Gareja

Non fu un viaggio confortevole, ma sicuramente panoramico. Per conquistarsi la visita a David Gareja il viaggiatore è chiamato a superare un sentiero tortuoso, dimentico della civiltà, in balia della natura più arsa e inospitale. Finalmente, eravamo arrivati. David Gareja è un complesso monastico georgiano ortodosso scavato nella roccia, situato nella regione della Cachezia (Georgia orientale), sulle pendici semidesertiche del monte Gareja. Prende il nome da David, uno dei tredici “padri siriani” venuto in Georgia nel VI sec. per sviluppare il monachesimo dopo la conversione dell’area al Cristianesimo, quando zoroastrismo e animismo erano ancora largamente professate. Il complesso comprende il “Monastero di Lavra” e il “Monastero di Udabno”. Il primo è situato all’interno dei confini georgiani, ed è tutt’ora abitato da sei monaci solitari che conducono una vita ascetica tra cappelle, refettori e celle scavate nella roccia. Il complesso di Udabno giace invece nel limbo tra Georgia e Azerbaijan a causa di una sommaria determinazione geografica di epoca sovietica, ed è per questo oggetto di dispute tra i due Paesi. Una ringhiera arrugginita tutt’ora demarca il confine, pertanto l’accesso alla totalità delle chiese rupestri non è sempre garantito. 

Nel solenne oblio di David Gareja

Il cartello indicava semplicemente la località di Udabno, senza suggerire quale sarebbe stato il sentiero migliore da scalare per raggiungere la cima del monte Gareja. Zaino in spalla, sole in faccia, gambe e braccia al lavoro, ci iniziammo ad arrampicare. Nessuna misura di sicurezza, nessuna protezione, solo tanta fatica, sole e l’obiettivo di raggiungere la cima, sperando di evitare i serpenti caucasici. Ci volle circa un’ora e mezza di salita più o meno impraticabile per sorpassare la foresta e approcciare la radura che ci avrebbe condotto alla vetta. Ogni tanto incontravamo qualche compagno di scalata, che ci suggeriva una via, che ci spronava a continuare perché ne sarebbe valsa la pena. Non in molti avevano raggiunto la meta, solo le anime più convinte. E’per questo che il monte Gareja è qualcosa di singolare. E’solo di pochi, eletti “pellegrini” che sono disposti a elevare l’anima al di sopra di questi paesaggi sterminati, ventilandola con il sapore dell’eternità. Eravamo lì sopra. Una cappella votiva ci aspettava al suo cospetto, assieme a tre soldati georgiani.

Nel solenne oblio di David Gareja
Nel solenne oblio di David Gareja

Alle nostre spalle i canyon della Georgia più o meno pennellati di verdi radure, di fronte a noi una metafisica, arsa, steppa azera. Era talmente sterminata e sorda che mi venne voglia di disturbarla, per capire quanto quello stralcio di natura fosse noncurante nella sua immortalità. Così iniziai a urlare a squarciagola il cognome del mio compagno di viaggio, e la steppa mi rispose con la sua eco. Amavo quel posto! Davvero tanto, ed ero felice di aver vinto quella salita. E scendendo a picco verso l’Azerbaijan, occhieggiavano li, dimenticate dalla storia e dal tempo, le eremitiche grotte di David Gareja, polverose, abbandonate. Nessun rumore, nessun profumo, solo l’incedere dei miei passi. 

Nel solenne oblio di David Gareja

D’altra parte ci sono delle notti in cui ancora oggi rifluisce il terribile ricordo della paura che provai per un istante di fronte al precipizio in cui camminavo. Di fatto sarei potuta rotolare giù da un momento all’altro per la minima disattenzione, o per la tracotanza di voler arrivare anche alla grotta più remota e irraggiungibile.

Nei secoli che furono queste chiese erano il centro della vita spirituale della Georgia, nonché punto di riferimento per l’arte sacra. Il complesso monastico fiorì tra l’XI e il XIII secolo, quando era abitato da circa 5000 monaci. Tra l’invasione mongola e in seguito persiana (1615), il territorio fu devastato e 6000 monaci furono giustiziati su ordine dello Scià Abbas. In tempi sovietici David Gareja venne utilizzato come una sede di addestramento militare fino al 1998.

Nel solenne oblio di David Gareja

Gli affreschi che vedevo di fronte a me non avevano mai visto un ritocco o un restauro, erano semplicemente rimasti lì, meravigliosi e vividi, come se i fedeli se ne fossero andati da qualche minuto. Sentii la forza della fede. Di una fede che non mi era mai appartenuta, ma la cui intensità mi commuoveva. Qualche secolo fa qualcuno si era spinto qui per venerare il proprio Dio, nel sole del giorno e nel buio della notte, nel silenzio delle montagne, nell’austerità della natura, nella nobile grandezza di quest’indisturbato angolo di mondo.

Ancor’oggi sento l’emozione di quei momenti dispersi nel Caucaso, di quando avevo potuto toccare un affresco centenario proprio come il mio lontano predecessore. Perché la straordinarietà di quel luogo era proprio questa: la sensazione che noi umani potessimo passarci il testimone da un lembo all’altro della storia, ricapitando fortuitamente nello stesso luogo sperduto, vinti dalla stessa bellezza degli affreschi, senza l’intermediazione del tempo, del progresso, di chicchessia. E per un attimo poter ignorare lo scorrere del tempo, al cospetto della stessa immutabile steppa. Per questo pensai che ognuno di noi appartenesse a David Gareja, che nelle giornate soffocate dalla banalità avrei dovuto pensare a luoghi come questo per ricordare la fortuna di far parte di tutto questo, era sicuramente uno dei luoghi più straordinari che avessi mai visto.

Nel solenne oblio di David Gareja

La corriera chiamava, e avevamo un’ora di cammino in discesa per non perdere la corsa. Così salutammo. Prima di rientrare a Tbilisi la corriera stoppò in un paesino in mezzo al deserto, e noi scivolammo al primo bar distrutti e felici, giusto in tempo perché dei georgiani ci regalassero tre boccali di birra Natakhtari, solo perché “eravamo italiani”.

Nel solenne oblio di David Gareja

A una giornata indimenticabile corrispose una cena indimenticabile, al ristorante “Maspindzelo” di Tbilisi, locale storico con cucina tradizionale poco lontano dall’Hammam. Finalmente potevamo assaggiare tutte le specialità georgiane in una sola sera, khachapuri, carne in umido, arrosto, insalata con salsa di noci, shashlik, e un piatto di khinkhali (ravioli) ai funghi, carne e verdure. “I ravioli si mangiano solo con le mani”, dicono i georgiani, e se “mangi anche il cappello” “porta sfortuna”. Superstizione a parte, i khinkhali sono così amati da essere praticamente il simbolo del Paese, non a caso la calamita iconica dei negozi di souvenir è tendenzialmente un raviolo gigante.

La mia seconda avventura georgiana non poteva che chiudersi a tavola, il modo migliore per brindare a un Paese che mi aveva dato tanto in poco tempo, incantandomi con la sua anima, il suo presente, e il suo passato. Salutammo la Georgia l’indomani, in cuor mio sperando di non farci ritorno troppo presto, solo per tutelare la magia che mi aveva colpito la prima volta che l’avevo vista. Nachvamdis!

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