Giorno di Mercato a Tunisi


Aeroporto di Fiumicino, Roma, 8 del mattino

“Un cornetto alla marmellata e un cappuccino di soia, per favore”. L’ultimo senza lattosio, penso, mentre fisso con l’acquolina un maritozzo alla panna, maledicendo le mie intolleranze. Intontita dalla notte in aeroporto a Venezia, approdata all’alba nel terminal dei voli intercontinentali di Fiumicino, cerco di rispondere, ancora a stomaco vuoto, di pessimo umore, alla domanda che tutti mi hanno rivolto: “Ma perché la Tunisia?”

Credo, forse, di essermi raccontata che volevo attraversare questo braccio di mare di 100 km, che separa la Sicilia dal continente africano, per sapere, vedere, cosa ci fosse più in là. Quante similitudini, quali differenze? Quali insormontabili equivoci della geografia e della storia hanno condannato due Paesi rivieraschi, a una sola ora di distanza aerea, a un’apparente incomunicabilità?

Quindi, è in ragione di questa curiosità che ho sacrificato i miei cari e abituali lidi nel Mediterraneo Orientale? Passo in rassegna tutti i pregiudizi e i timori che smorzano il febbrile entusiasmo della partenza: criminalità, dubbia conservazione HACCP dei cibi, governance dittatoriale fresca di colpo di stato, default finanziario incipiente, acmé della crisi migratoria, stile di guida arabo-napoletano, incursioni dei predoni dell’entroterra tunisino. Chissà cosa penserò di capire in 18 giorni di viaggio, ammesso che siano sufficienti per sfatare ad uno ad uno i cliché appena elencati. Alla faccia della riposante vacanza estiva. 

Il volo è di 50 minuti, inondato di sole, cocente per i feticisti del posto vicino al finestrino, guardoni della prima ora all’atterraggio in terre sconosciute. Sorvoliamo il nostro mare blu, disteso, calmo, in tutta la sua maestosità. Al controllo passaporti siamo gli unici italiani, c’è solo un’altra chiassosa famiglia romana poco distante, ai nastri di consegna bagagli vedo voli in arrivo da Tripoli, Misurata, Algeri, qualcosa di saheliano. Siamo in Africa. Prendiamola allora, questa sim tunisina, sia mai cosa possa succedere. Fuori, una signorina sbrigativa ci consegna una Suzuki Swift tirata a lucido, si indegna quando le chiedo se è prevista l’assistenza 24/7, io che pensavo di perdere ruote per strada nel mezzo del deserto tunisino, “ci vediamo tra 18 giorni alle 8.10 al parcheggio P5, au revoir”. Ok.

Poi, l’inferno. Non sembrava, attraversando la superstrada che connette l’aeroporto, il Bardo, e vari altri distretti direzionali al centro storico. C’era tutto quello che mi aspettavo, viali ricchi di palme, sorpassi innocui a dx e sinistra, macchine spesso scassate, cartelloni pubblicitari di fast food o di fantomatici yogurt aromatizzati della Danone. D’un tratto siamo alla Torre dell’Orologio, all’inizio di via Habib Bourguiba, e inizia la furia. Doveva essere una lunga avenue cittadina costruita in stile coloniale, con una promenade alberata per il passeggio, l’Opera in stile parigino, brasserie, patisserie e cafè. Ma è il giorno del mercato..il caos.

Il nostro Dar è proprio nascosto nei meandri della Medina di Tunisi, come raggiungerlo? Ci occorrono pressoché due ore, per percorrere i circa 4 km che ci separano dalla Cattedrale di San Vincenzo de Paoli alla Piazza della Kasbah. Procediamo a passo d’uomo, motorini e auto si toccano senza pudore, agli incroci stradali regna la precedenza dei pedoni rispetto a quella degli automezzi, facilmente contromano, i parcheggi sono occupati da banchi di abbigliamento, i motorini sono abilissimi nello slalom, tra noi comunichiamo rigorosamente con segnaletica a gesti fuori dai finestrini, le frecce forse sono vietate? Poi spuntano i venditori ambulanti di fichi d’india, gelsomini, pannocchie, diretti verso la piazza dell’Hotel Royal Victoria, antica Ambasciata Britannica. Perché no, a un certo punto ci taglia la strada anche un pallone da calcio, ci sono vari bambini che giocano sul ciglio della strada, tra un banco e l’altro. Arriviamo al parcheggio multipiano della Kasbah, piuttosto scuro, forse un po’ sinistro. Ci fermano dei parcheggiatori (abusivi?), dico che non ho dinari tunisini, “je vien de arriver a Tunis, désolé!”, ma mi fanno cenno di passare, non importa, posso procedere. Ma come si paga? Mah, all’uscita forse c’è un tizio che ci chiederà di saldare, lì, dentro a un bussolotto. E ora che succede però, quelli di prima ci sfondano la macchina? Chissà.

Tunisi – la Medina

Il Dar Zyne la Medina è la nostra fermata, il primo appuntamento con l’incantato mondo dei dar, ossia antiche case tradizionali riconvertite in strutture ricettive, microcosmi indisturbati in cui soggiornare secondo un’autentica esperienza estetica alla scoperta del patrimonio artistico, artigianale e culturale tunisino. Vi si accede normalmente attraverso grandi portoni, la qualità della porta è un distintivo dell’agiatezza del proprietario: il legno di palma, più usuale ed economico, è usato per le case modeste; l’albicocco, raro e prezioso, per le case nobili. Anche i loro colori serbano un significato particolare: il verde è il colore del Paradiso, il giallo ocra è quello amato da Dio, il blu, sicuramente il più gettonato. Dei grandi chiodi ornano la superficie con disegni simbolici, detti hilia(“gioiello”), raffigurando tra i simboli principali Tanit, ovvero la dea cartaginese della fertilità, la stella di Davide a sei punte (che secondo la leggenda scaccia gli spiriti maligni jinn), la croce cristiana, il mihrab musulmano, la mezza luna turca, l’occhio di Allah, la mano di Fatima e il pesce. Le porte dei Dar separano il vociare della Medina da un’atmosfera ovattata, privata, domestica, familiare.

Il principio di ogni dar, minuto, imponente, sofisticato o scarno che sia, è che tutte le stanze da letto, la cucina, i ripostigli, si affacciano su un ampio cortile interno, è il luogo più affascinante, quello che preferisco. E’dove grazie a un ampio lucernario si può fruire di luce naturale, dove tra fiori d’arancio e placide fontanelle ci si può appisolare, e infine dove viene servita la colazione, sempre molto ricca: fichi freschi, anguria, melone, uva, uova, insalata, halva, succhi zuccheratissimi, fiumi di caffè, tè alla menta, e pane mlawi, una sorta di crescia sfiziosissima che si accompagna con confetture dolcissime. Lì conosciamo una ragazza che si offre di condurci a pranzo, forse sembriamo un po’ spaesati. Scegliamo il Fondouk El Attarine, un caravanserraglio riabilitato a lussuoso ristorante, centro d’artigianato, tea room. Il mio compagno di viaggio è assertivo “voglio stare qui, qui mi va bene”. Al nostro tavolo, kabkabou, alias il primo di una lunga serie di stufati di pesce in salsa di pomodoro, e cous cous di pesce, piccante. Il pesce viene piazzato, in tutta la sua interezza, esattamente sopra il noto cumulo di pallini sgranati. Mise en place ricercata.

(continua..)

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