Da Hamra alla basterma di Bourj Hammoud
Claudia Zecchin
Una volta lessi un articolo su Hamra, il magico quartiere che tra il 1960 e il 1970 era sede dell’attività intellettuale e culturale libanese. Hamra Street era conosciuta al pari degli Champs Elysees di Beirut. A me sembrava architettonicamente brutta, trafficata, caotica, aggrovigliata in un tessuto di strade distinte dai colori dei mercatini di spezie, ortaggi, shawarma fast-foods, panettieri e take-away di manouche. Si, faceva un caldo asfissiante, l’umidità era alle stelle, c’era molto rumore, ma finalmente sembrava di essere in un quartiere arabo. L’andirivieni in doppio senso di macchine e pedoni, i mercanti che si affannavano ad agganciare il miglior cliente, i ritmi incalzanti dei commercianti, cozzavano con gli indolenti bevitori di caffè rigorosamente all’ibrik, che stavano appollaiati su scalini e bar in mezzo al marciapiede. Qui si beveva caffè Najjar, tostato in Libano e diffuso in mezzo Medio Oriente, soprattutto miscelato al cardamomo! Avevo letto un articolo del finalista Pulitzer Borzou Daragahi, che descriveva questo quartiere come un bastione del liberalismo, un rifugio per la convivenza delle molte religioni del Libano: maroniti, sunniti, ortodossi, drusi, sciti, melchiti. Era il loro rifugio secolare, sede di night club e locali a luci rosse, di bar e ristoranti che servono alcolici, di sale da concerto e da esposizione artistica, di locali per universitari, di shisha bar e rooftop terrace. Forse è per questo che a tutti i libanesi che avremo incontrato Hamra piaceva: è un incontrollato e indistinto contenitore di ciò che il Libano oggi rappresenta, senza escludere alcuna diversità e senza giustificare le ragioni di una possibile convivenza, abbracciando tutto ciò che del Libano rimane, anche se in un quartiere brutto.


Eppure è il simbolo di uno scintillante passato e dell’identità che accomuna agli abitanti della città. Perciò, non c’era nulla da cercare, da “vedere”, c’era solamente da confondersi con la massa umana che circolava per quelle strade e capire che era proprio quella l’anima del quartiere. Soprattutto, capii che la bellezza di Hamra non stava tanto negli esterni, quando negli interni, nei locali più caratteristici che si raggiungevano tramite scalette defilate e viuzze secondarie. Così grazie al fiuto della mia amica ci piazzammo nel patio del T-Marbouta, un localino informale e healthy-chic che serviva piatti tradizionali a un prezzo ragionevole. “This is for you, you have the same eyes”. Toh! Ancora adesso porto il braccialetto portafortuna che mi aveva regalato quel cameriere. Il classico amuleto con l’occhio di Allah che scaccia il malocchio per mezzo Mediterraneo, dalla Grecia alla Turchia, al resto del Levante e inoltrato Medio Oriente. Avere a fianco un individuo come Maria Chiara può recare spesso piacevoli sorprese: “Hai mai giocato a backgammon?” “Tavli?(sapevo cosa fosse solo in lingua greca). Ho sempre guardato, ma mai provato”. Mi girai e vidi che quasi tutto il locale stava giocando. Erano circa le cinque e famiglie e gruppi di studenti stavano bevendo il thè e il caffè, accompagnandolo con knafeh, biscottini, marmellatine, labneh. Una cosa notai, le loro tavole erano sempre piene, ma non era mai necessario finire il cibo, quasi dovesse tenere compagnia. “Sai che c’è? Giochiamo”. Oggi grazie a Maria Chiara so giocare a backgammon, quantomeno nella versione armena, quella che lei aveva imparato. Devo ancora capire quante tecniche esistono. La sera successiva avremmo anche partecipato a un minitorneo di backgammon ad Hamra.. Era scivolata un’ora abbondante! La mia tabella di marcia era in pericolo. Avevamo in corpo come minimo già 10 km di cammino, ma dovevamo recarci a Manara a vedere le Raouche rocks al tramonto!


Ci incamminammo per Manara, la “zona del faro”, dove sontuosi edifici ormai fatiscenti conducevano allo sbocco sul mare. Qui abbondavano chioschi, beach clubs, hotel di lusso. La collina che portava alle Raouche o Pigeon Rocks era ripidissima, avevo una montagna di vesciche ed eravamo entrambe stremate. Così, saltammo sul primo bus. Un vecchio autista ci aveva fatto il favore di accordarci un brevissimo passaggio per scollinare, comunicando in qualche lingua franca di dubbia classificazione. A bordo non eravamo gli unici viaggiatori occidentali ad aver optato per quella soluzione, c’era qualcuno con il consueto cappellino da “inglese in vacanza”. Solo 100 metri, guidando con le porte completamente spalancate, e saltammo giù per trovare la miglior terrazza panoramica sulle Pigeons. Eravamo in zona a maggioranza musulmana e al primo tentativo ci andò male, non servivano alcolici. Al secondo shisha bar, con un po’ di pazienza, il cameriere non vedeva l’ora di concederci la promozione due birre al prezzo di una prima delle sette di sera, la famosa birra Almaza. Il tutto accompagnato da carote crude e vaschette di frutta secca mista, che avremmo sempre trovato in ogni tavola imbandita libanese. Il primo tramonto a Beirut, sul mare, fu fantastico.

Come saremmo tornate a Gemmayzeh? Beh, era arrivata l’ora. Saltammo su uno dei taxi a targa rossa che ci aveva clacsonato per strada. C’erano altre due ragazze dentro, così saltammo sul sedile posteriore, eravamo in quattro l’una sopra l’altra. “Al Saifi per favore”, “1000 lb”. Era tutto bellissimo fino a quando quella cifra, che era l’equivalente di un euro, sarebbe presto stata revisionata in corsa. Le ragazze arabe scesero prima di noi e ci dissero di non cedere sul prezzo, il tassista voleva fregarci. In realtà non ricordo come andò ma so che ci lasciò all’entrata del quartiere, non esattamente al Saifi, dopo una bella litigata di rito con gli appartenenti alla categoria. Forse la mia compagna di viaggio si ricorda tutta la storia. Quella sera cenammo all’Enab, un magnifico ristorante a Mar Mikhael (probabilmente tra i migliori del nostro viaggio), l’art district di Achrafieh. Mi piaceva credere di alloggiare nientemeno che nel miglior quartiere di Beirut, tanto tranquillo e impreziosito da librerie, caffè, mostre fotografiche, laboratori artigianali e superstiti edifici levantini al mattino, quanto brulicante, vivo e affollato nei locali shabby chic, underground, eleganti o spesso di cucina armena, la sera. Achrafieh era molto più sofisticata di Hamra, più raffinata, ordinata, più residenziale. La maggior parte dei locali si trovava appunto in Armenian Street, un corso pianeggiante che portava verso l’est della città, nel quartiere armeno di Bourj Hammoud. A metà del corso c’erano ancora i resti di una stazione dei treni abbandonata dai tempi della guerra.

Al di sopra di Armenian Street si inerpicavano delle scalette colorate, che di notte diventavano il plateatico di caffè e ristoranti. Quella sera comunque avevamo un appuntamento nel dopocena. Un altro asso nella manica della mia amica. Diceva di aver condiviso dei momenti divertenti con il migliore amico del suo coinquilino libanese, in Armenia. Questo ragazzo era di Beirut e quella sera avremmo dovuto incontrarlo a Mar Mikhael in un qualche locale armeno di cui non ci aveva dato dettagli. Lavorava nel settore del legno e viveva appunto ad Achrafieh, in prossimità di Bourj Hammoud, si chiamava Antranik, detto Anto. Senza sapere bene dove ci stessimo dirigendo, andammo verso Bourj Hammoud. Un po’ ad intuito cercammo di sondare ogni locale armeno che incontravamo come due persone di dubbia intelligenza, alla fine venni attratta da una bouganville! Era il pergolato del Seza Bistro Armenien, una taverna molto accogliente. Entrai per spiare il menù, che ovviamente abbondava di basterma. Ci trovammo imbucate in una festa, circolavano vassoi di vodka Ararat, le sedie erano state spostate alle pareti e tutti ballavano festosi al ritmo di musiche caucasiche. Mentre scartabellavo il menù un tizio si avvicinò e assaltò Maria Chiara: era Antooo! Incredibile, la sorte ce l’aveva recapitato in faccia senza che nemmeno ci fossimo accordati sul punto di ritrovo. Un metro e ottantacinque di armeno trent’enne dagli occhi scuri, le sopracciglia folte e un sorriso super solare. “Benvenute a Beirut!”. Aveva abbracciato Mary come una sorella. Subito dopo ci aveva già presentato sua sorella, i suoi genitori e qualche parente. Era una festa di benvenuto per degli amici di famiglia, con qualche bottiglia di vodka a carico. Ci invitarono a ballare. Più tardi ci eravamo seduti per una sigaretta sotto il pergolato.

Ci spiegarono che ogni estate queste famiglie di armeni diasporati si riunivano a Beirut. Alcuni di loro vivevano in Giordania, altri in Siria, in Iraq, altri stavano in Armenia. Il nonno di Anto era originario di una cittadina dell’Anatolia centrale, Yozgat. Ai tempi del genocidio sfollarono in Armenia, dove il padre era cresciuto prima di trasferirsi in Libano. Suo padre era il campione della serata. 180 kg di baffo e ospitalità, si era innamorato di noi quando aveva capito che parlavamo russo, la lingua del suo passato sovietico. “Avete visto che bella moglie ho?”, sbiascicava alticcio per farci ridere. Sua moglie l’avrebbe presto portato a casa, dopo averci invitato il giorno seguente a una festa in un villaggio imprecisato del Libano, dove avremmo potuto assistere all’”abbattimento del montone”. Apprendevo che in Libano sono infatti disseminati una miriade di villaggi armeni, di cui il maggiore nella famosa città dal passato romano e omayyade di Anjar (nella valle della Beeka). Gli armeni libanesi sono oggi 100.000, divisi tra Beirut est e il resto del paese, dove hanno costruito chiese e fondato centri di associazione, scuole e università, tra cui la famosa Università di Haigazian nei pressi di Hamra. Di loro rimane di fatto un forte senso identitario, che si riscontra nel mantenimento della lingua, dell’insegnistica, della valuta (si, a Beirut circola anche la valuta armena oltre alla lira e il dollaro), della musica e del cinema, della memoria del passato caucasico o turco, dalla cucina, che emerge in parecchi angoli della città sottoforma di lahmajoun take-away (la pizza armena ricoperta di carne macinata, cipolla, verdure, spezie. A volte viene servita piccante, ed è diffusa in Turchia, Cipro, Armenia, Azerbaijan, Siria, Libano). A livello politico, invece, la Costituzione libanese consente agli armeni solo la rappresentanza parlamentare, rendendo inaccessibile la carica di Presidente della Repubblica, obbligatoriamente assegnata a un cristiano maronita, di Primo Ministro, riservata a un sunnita, e di Presidente del Parlamento, appannaggio di uno sciita. “Mia sorella si sposa in Puglia il prossimo settembre”, diceva Anto. Sua sorella era bellissima, altrettanto solare, innamorata dell’Italia e degli italiani, parlava la nostra lingua. Si sarebbe trasferita a Gallipoli il settembre successivo. Ci invitò al matrimonio, “ma senza accompagnatori!”, aveva precisato Anto! Ahah ☺ Il primo giorno di Beirut si era concluso così, con i racconti generazionali di un clan di armeni, in una taverna armena, nel cuore della capitale del Libano. Tutto ciò dopo 15 km di camminata in mezzo a macerie, grattacieli avveniristici, tuffi nel Mediterraneo, backgammon nel caos di Hamra, un aperitivo e un litigio con tassista. Tornammo all’ostello, eravamo distrutte. Avevo preparato un programma dettagliatissimo per l’indomani, quando ancora ignoravo la situazione della viabilità e delle infrastrutture del Libano.
