Tui è un millennial di Chang Rai, centro ancestrale dell’antico Regno del Lanna.
Sono nel nord della Thailandia, mi sto dirigendo verso il Triangolo d’oro, dove mi affaccerò al Myanmar e al Laos una volta che avrò raggiunto il corso del Mekong.
Tui è venuto a prenderci in hotel a Chang Mai alle 6 e mezza del mattino, puntualissimo. Un cortese e occhialuto secchione che esordisce alle prime luci dell’alba polemizzando sul traffico, la speculazione edilizia e la “colonizzazione” di Chang Mai. Adorabilmente pignolo e insofferente, mi suscita tenerezza quando racconta come i residenti farang, i bianchi occidentali,abbiano reso drammaticamente costosi i locali in cui sorseggiava del tè tra una lezione e l’altra con i compagni di università. “Per fortuna i farang possono acquistare solo i condo”, dice, “la legge thailandese non consente loro di acquistare i terreni, sennò sarebbe la fine. Le uniche volte che questo può succedere è quando pagano profumatamente gli studi legali giusti, che riescono (magicamente) a velocizzare le pratiche di concessione della cittadinanza thai, a prescindere che gli acquirenti stranieri abbiano versato o meno le imposte nel nostro paese per una durata di quindici anni”.
La storia che oggi ascolterò per otto ore di tragitto avrà un gusto dolce amaro. Sarà il racconto di un ragazzo cresciuto in una terra avvolta nel mito, il cui orgoglio è sopravvissuto all’invasione dei birmani e all’incorporazione nel Regno del Siam e che oggi si appresta ad attutire l’impatto con la globalizzazione. Nell’antico Lanna tutto è peculiare, la lingua, il cibo, la spiritualità custodita nella miriade di templi sulle montagne e le colline, i villaggi tribali che sembrano ancora resistere indisturbati. Per ragioni caffeicole ho approfondito solo la questione della tribù Akha, giunta dal Tibet sulle rive del Huai Masang circa 2000 anni fa e oggi costituita da circa 55mila abitanti che vivono dell’agricoltura del mais, riso, frutta e verdure, e soprattutto, del tè e del caffè che hanno iniziato a coltivare in sostituzione all’oppio. Correva l’anno 1958 quando stato thailandese, almeno ufficialmente, ne bandì la coltivazione, se non a scopo medicinale.


Gli occhi e le parole di Tui sono il filtro con cui vedo scorrere le verdi risaie di fronte a me, “qui vengo a passeggiare tutti i fine settimana con i miei amici di infanzia, prima che si inizi a raccogliere il riso a dicembre”. “Chissà se ora riusciremo più a farlo, visto che dalla pandemia in poi stanno iniziando a costruire strade ed infrastrutture tra Chang Mai e Chang Rai. La cosa buona è che finalmente anche noi lanna potremo facilitare la nostra vita quotidiana come a Bangkok, dove c’è lo spettacolare skytrain, la metro, i taxi..versiamo le stesse tasse! Ma non abbiamo mai avuto tutti quei servizi. Chissà che ne sarà però..del mio villaggio. Mia nonna ha paura che presto smetteremo di vedere assieme i tramonti sulla nostra valle sacra. Mi ha cresciuto così, ingozzandomi di sticky rice avvolto nei segmenti di bamboo e nelle le foglie di banani, accompagnato da ettolitri di tè. Credetemi, lo sticky rice come a Chang Rai non si mangia da nessun’altra parte, mia mamma era così contenta quando ospitai qui il mio compagno di studi in Cina, un amico di Singapore. Non riusciva a smettere di chiedere ancora altro riso! Lo mangiavamo tutti assieme a colazione, pranzo, cena. Il pad thai è un piatto per turisti, una trovata mediatica”.

Tui ci racconta come l’area di Chang Rai sia sempre stata connessa al colossale territorio della Cina. Dopo la guerra civile cinese, molti nazionalisti del Kuomintang si asserragliarono su queste montagne, importando le loro armi da combattimento, stabilendosi con le proprie famiglie, diffondendo la cultura cinese e inizialmente dedicandosi alla coltivazione dell’oppio. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento i cinesi di Chang Kai-Shek misero a disposizione il proprio arsenale per aiutare i thailandesi a scagionare le insurrezioni di matrice comunista nelle zone di confine del paese. In virtù di questo contributo, molti di loro beneficiarono di procedure facilitate per l’ottenimento dell’ambita cittadinanza thai.
Nel 2024 la potenza cinese torna a incombere. Tui ci racconta che a breve esisterà una ferrovia che collegherà Cina-Laos-Thai-Malesia-Singapore, gli abitanti potranno raggiungere le maggiori città cinesi in sole cinque ore, oggi riescono a farlo solo tramite un lungo viaggio in auto. Lui stesso ha studiato linguistica tramite un programma di exchange in Cina, non capisco se provi idiosincrasia o ammirazione per i cinesi. “Quelli sono matti, studiare nelle loro biblioteche è impossibile, sono sempre piene e a volte strappano le pagine dai libri per ansia da competizione” “Se andate in un aula studio thailandese vi mettete a ridere, sono quasi sempre vuote!”.
Arriviamo al Wat Rong Khun, scintillante al sole. Tui polemizza, “per quanto stravagante, è ancora un luogo di culto”. L’architetto thai Kositpipat, ego minuscolo, dichiarò al Times che questo progetto, datato 1997, gli avrebbe conferito vita immortale e che ogni essere umano avrebbe dovuto assistere al suo capolavoro. Chiamato da noi profani “Tempio Bianco”, il luogo di culto buddista presenta un colore inconsueto, pare che l’architetto mirasse a renderlo in questo modo l’”emblema dell’illuminazione buddista”, incastonandoci dei mosaici a vetro che avrebbero fatto “risplendere in tutto l’universo la saggezza del Buddha”. Un altoparlante continua ad intimarci di “continuare a muoversi” senza formare colonna, tripudio della ieraticità. Tui è infastidito, dice che più tardi ci porterà a visitare un tempio “veramente buddista” dove potremo parlare tranquillamente di Buddha. Ci invita a considerare l’esuberanza del tempio: sulla parete di fondo sono dipinti Hello Kitty e Spiderman, accanto alla rappresentazione delle Torri Gemelle di New York. E’ stata proprio questa a catturare la mia attenzione. Nei templi di Bankgok e Chang Mai avevo assistito alla rappresentazione delle scene storiche e religiose della vita di Buddha, qui mi sono imbattuta nei volti di George W. Bush e Osama Bin Laden, dipinti negli occhi di un demone. Un dichiarato tentativo stravagante e devo dire, indimenticabile, di rappresentare l’eterno scontro tra il bene e il male.
Mi tolgo le scarpe, ormai c’ho fatto l’abitudine, sto iniziando a dimenticarmi di essere schizzinosa. Entro nel tempio “veramente spirituale” dove ci accompagna Tui. Qui possiamo parlare. Pongo la mia solita domanda banale: “perché Buddha è sempre rappresentato con le gambe incrociate?” “Si tratta della posizione che precede l’illuminazione, Claudia. Sembra che originariamente siano stati i Romani a riprodurlo per la prima volta nelle Indie, Siddharta Gautama visse appunto nell’India del Nord nel VI sec. a.C.” “I Romani in India? A quell’epoca?” penso. “In realtà nell’ambiente domestico Buddha non è sempre rappresentato allo stesso modo. Associamo i giorni della settimana a un’immagine del Buddha, e a un colore, e ne conserviamo una statuetta rappresentativa nelle nostre dimore.” Io sono nata la domenica, pertanto mi merito la statua nella posa della contemplazione della sofferenza e sono associata al colore rosso. Quando siamo giunti a Bangkok tutta la città era tappezzata di azzurro per la festa della mamma: si trattava del compleanno della Regina Madre thailandese, nata di venerdì, chissà di che anno? Il computo dell’era buddista inizia in Thailandia dalla morte di Buddha, è 543 anni avanti rispetto al calendario gregoriano, quindi l’anno 2024 d.C. corrisponde all’anno 2567.
Infine chiedo “ma che cos’è quest’illuminazione?” “L’illuminazione è lo svincolo dalle catene e dagli ostacoli. E’il risveglio dell’intelletto, lo “spegnimento” (Nirvana) di emozioni negative e desideri disturbanti e il raggiungimento della verità, della realtà trascendentale, l’unica. Solo se ci libereremo dalle proiezioni della nostra mente e lasceremo che gli altri siano e che le cose accadano, accogliendole con amore, potremo raggiungere l’illuminazione”. Let it be


Mi chiedo se anche i buddha che giacciono sul letto del Mekong, “la Madre di tutte le acque”, non abbiano perso la speranza rispetto a questo affascinante miracolo filosofico. Ogni volta che le autorità dragano il fiume sembrano rinvenire una quantità sconsiderata di statue antiche, qui gettate in passato a scopo rituale. Il Mekong nasce in Tibet, attraversa la provincia cinese dello Yunnan, il Myanmar, la Thailandia, il Laos, prima di entrare in Cambogia e da lì in Vietnam, dove sfocia nel Mar Cinese meridionale, formando un immenso delta. Conosciuto oggi per essere l’autostrada acquatica del contrabbando, il Mekong bagna marca contemporaneamente tre confini, qui sul Triangolo d’Oro, dove saliamo su una long tail per avvicinarci al Laos. “Ora costeggeremo la città laotiana di Tonpheung, già la chiamano la seconda Macau. Ci sono solo casinò, è una sorta di impero cinese dove la speculazione edilizia è avvenuta in yuan, il kip quasi non circola. L’esperimento socialista laotiano ha portato a questo, all’invasione del capitale cinese. Qui l’80% della popolazione è cinese, la giurisdizione è cinese! La mafia cinese ha una base solidissima, questo è l’hub da cui partono una quantità inaudita di cyberattacchi, per non parlare del traffico di esseri umani. Non voglio pensare a ciò che succede a Tonpheung la notte, ci sono stato solo una volta, ma era giorno. Dovete sapere che il Triangolo d’oro è anche il luogo in cui continua la maggiore produzione di oppio illegale, in questo modo i ribelli birmani possono finanziare le armi necessarie per combattere il regime. Vedrete cosa sarà Tonpheung tra 10 anni!”. Mentre mi lascio intontire da questi moniti guardo l’acqua del Mekong, è terribilmente limacciosa, torbida, è semplicemente marrone! Cosa potrebbe accadermi se ci mettessi piede? Pare sia anche infestata di coccodrilli, oltre che di buddha. “In realtà ragazzi, i cinesi detestano i loro governanti, sono solo abituati all’idea di doverlo accettare. Sanno che il riso sulle loro tavole è chimico, sanno che le loro verdure sono fake, ecco perché importano tutto l’agroalimentare dalla Thailandia. Tutto è fake in Cina!”. Davanti agli sproloqui di questo ragazzo non capisco come reagire, che abbia ragione, che sia un visionario, o che abbia le allucinazioni? E’troppo gentile perché possa attribuirgli l’ultima opzione. Chissà cosa pensa di noi farang qui sulla barca, due italiani e quattro americani che poco fa, a pranzo, manco sapevano “cosa” fosse Napoli.


Al Museo dell’oppio ci tiene a spiegar loro che la CIA finanziò gran parte della guerra in Vietnam e il Kuomintang tramite lo smercio dell’oppio sul Triangolo d’Oro. Il percorso spiega la storia di questa pianta “sacra” dalle prime testimonianze sumere alle le fonti omeriche, fino a fornire una panoramica delle maggiori aree di produzione globali. Dal 2008 la regina dell’oppio è l’Afghanistan, che ha superato la produzione della Birmania. In Asia la coltivazione dell’oppio si diffuse soprattutto dal Settecento, confluendo poi in gran parte nel monopolio della Compagnia delle Indie Orientali a seguito delle guerre dell’oppio nel corso del secolo successivo. Anche la bisnonna di Tui consumava dell’oppio per lenire i dolori mestruali e addormentarsi placidamente la sera, pare. Prima di rientrare a Chang Mai Tui ci porta a bere il caffè da Doi Chang “a voi occidentali il caffè piace”, una catena di caffetterie che molto ha da raccontare sulla lotta alla coltivazione dell’oppio. Una brochure all’interno racconta. “The village of Doi Chang received support and kindness from H.M. King Bhumibhol Adulyadej Rama IX to improve the livelihoods of people and to reduce illegal drug cultivation in the area. In 1969 (2512 B.E.), hill tribe farmers were motivated to grow winter plants instead of opium.”

É caldo e umido a Chang Mai, alle 22. Spero di trovare un baracchino dove provare il famoso khao soi prima di lasciare il Regno del Lanna, domani ci dirigeremo a sud, sulle isole del Golfo del Siam. Tui ci consiglia un paio di locali da provare, ma chiudono tutti entro le 22, in Thailandia è così. Chiede in che isole siamo diretti. Quando accenno a Ko Phangan sobbalza “andrete a quelle feste in spiaggia?” Dico di no, non mi piace la ressa. “Ci sei mai stato?” Chiedo. “La mia famiglia non mi ha mai lasciato andare al full moon party di Koh Phangan, roba per farang dissoluti”. Ha 37 anni e risponde sempre così, con una certa innocenza. Credo mi lascerà un bel ricordo, in fondo è una delle voci della sua terra.
Kaa (grazie) Tui, buona fortuna.

