Io sono uno yazida

E’ il penultimo giorno dell’anno 2024, sono sulla strada innevata per la città di Gyumri, l’antica Aleksandropol degli zar, oggi Armenia.

Io sono uno yazida

Siamo nelle mani di Berj, un adorabile autista armeno di origine irachena scappato a Yerevan nel 2003, quando gli americani bombardavano Baghdad e si occupavano della sorte di Saddam Hussein, di cui lui è più o meno un fan. Le radici di Berj risiedono a Zeytun, Turchia anatolica, da dove i suoi trisavoli se ne andarono per dirigersi in Mesopotamia sfuggendo alle persecuzioni ottomane. Di etnie, religioni e culture mesopotamiche Berj se ne intende, pur sembrandone inconsapevole. E’ uno di quegli animi buoni, liberi e recalcitranti alle logiche della politica che stentano ad attribuire il male all’essere umano, per quanto distinto dal segno della diversità, preferendo imputarlo all’entità astratta della ragion di stato. Quando eravamo all’enoteca di Areni ha provato, divertito, a spiegarmi come risucchiare il vino dalle caratteristiche botti di argilla: “Come con una damigiana Claudia! Aspiravamo la benzina allo stesso modo dalle pompe di benzina in Iraq, sotto le bombe. Spesso dovevamo andare a far rifornimento di notte per non essere avvistati”. Al monastero di Khor Virap, dirimpettaio della valle turca e del Monte Ararat, Berj mi ha parlato degli yazidi, di fronte a un ghushbase, un allevamento di piccioni. Secondo l’Antico Testamento, dopo il Diluvio Universale una colomba recò a Noè un ramoscello d’ulivo trasformando l’ira di Dio in pace. Acquistare un piccione in Armenia e rilasciarlo in una chiesa è oggi simbolo di buon auspicio verso i nuovi nati e la realizzazione dei propri sogni. Berj esclama “Questi sono niente rispetto ai pavoni deli yazidi!” Ebbene si, il siramarg (pavone in armeno) è un simbolo iconografico presente nelle chiese cristiane tardo antiche, nei luoghi di culto dello zoroastrismo in Asia Centrale e nell’Antica Persia, e infine, nei templi dei veneratori dell’angelo pavone, gli yazidi. Sapevo solo che in Armenia ci fosse il loro tempio più grande al mondo, il Quba Mere Diwane.

Io sono uno yazida

“Berj vorrei andare a vedere questo tempio”.

“Yalla, va bene! Ma andremo in un posto migliore, in uno dei loro villaggi di circa 2000 abitanti, quando saremo sulla strada per Gyumri”.

Io sono uno yazida

Così oggi ci ritroviamo su questa carreggiata completamente imbiancata, rischiando di bloccarci sulla neve quando Berj ci tiene a sostare poco distante da Artashavan. Ci porta qui per assistere al memoriale dell’Alfabeto Armeno, fondato per tradurre la Bibbia in lingua dal chierico Mesrop Mashtots nel 405 d.C, sepolto nei paraggi. Sosta comprensibile, considerando che questi signori ci tengono a sottolineare il ruolo di essere stato il primo stato cristiano al mondo. Altrettanto comprensibile è in pit-stop al food court di Aparan per assaggiare lo zhingyalov hats, una sorta di lavash ripieno di una ventina di erbette, originario della contesa regione dell’Artsakh altresì conosciuta come Nagorno Karabakh.

Io sono uno yazida

Poi arriviamo a Rya Taza. Scendiamo. Vediamo uscire dal tempio un vecchio sheikh, anche se presto scoprirò che ha 35 anni. Mi avvicino con circospezione e un largo sorriso. Mi chiede di togliermi le scarpe per accedere, assicurandosi che non calpesti la soglia di ingresso, questo mi ricorda l’accesso ai templi buddhisti. Mi spiega che la soglia è laddove abitano gli angeli. Berj va a fumarsi la sua sigaretta e ci lascia la nostra privacy.

Io e lo sceicco iniziamo a comunicare in russo, mi spiega del villaggio di Rya Taza, di come i primi yazidi fossero giunti qui dalle persecuzioni ottomane del XIX secolo. Degli yazidi so poco, e purtroppo solo relativamente all’ esecrabile eccidio da loro subito tra Ninive e Sinjar (Iraq) per mano dell’Isis allo scoppio della guerra in Siria. Voglio provare a conoscere la loro storia il più possibile. Lo sheikh mi racconta che hanno costruito questo tempio nel 2020, proprio per l’accrescersi della comunità a seguito dei fatti accaduti in Mesopotamia. Mi racconta con orgoglio che la loro religione è di origine sumerica, precristiana, pre-musulmana, non ha nulla a che vedere con lo zoroastrismo. Ci tiene a sottolineare l’unicità di questo culto anche se riesco a distinguere la contaminazione con altri culti: la venerazione della natura (fuoco, cielo, sole, l’animale del pavone), il richiamo alla preghiera cinque volte al giorno, il digiuno, il divieto di consumare maiale, la trasmigrazione delle anime. Infine mi sorprende: questo culto millenario si basa sulla tradizione orale, gli yazidi non possiedono una sacra scrittura propria, solo recentemente hanno iniziato a pubblicare dei testi per provare a mantenere unita la comunità diasporata, che per dogma non può dedicarsi al proselitismo.

“Claudia, quando dici..Io sono uno yazida, intendi un sistema di organizzazione millenaria impenetrabile, fondata sulla tradizione intergenerazionale, su un sistema societario tribale in cui il ruolo delle caste svolge l’importantissima azione di mantenere la nostra identità, la nostra fede, la nostra sopravvivenza”.

“Quali sono queste caste?”

“Io sono uno sheikh, puoi esserlo solo per ereditarietà, anche le donne possono essere sheikh. Appartengo alla casta più alta e ho il titolo per occuparmi della guida della comunità. Poi ci sono i pir, i mentori che discendono dal santo Peer Alae, possono svolgere funzioni di amministrazione religiosa e profana; infine ci sono i murid, cui appartengono la maggior parte dei comuni yazidi.”

“E io cosa sono?” Chiedo così, solo per capire come sono qualificati gli “esterni”.

“Sei una mia amica ora! Abbiamo molti amici americani, indiani ed europei che si riuniscono qui da tutto il mondo nel mese di luglio per supportare la causa yazida. Ora vorrei invitarti per un caffè, due giorni fa è mancato il nostro sceicco padre e nella nostra comunità è stato organizzato un lauto banchetto. Vieni con me! Siete nostri ospiti.”

Quello che doveva essere un caffè diventa un pranzo. Lo sceicco ci presenta ad un altro signore barbuto, il nuovo sceicco capo, e a un tizio singolare con una testa di capelli ricci. Sta pranzando con loro, ma vedo che è europeo.

“Sei anche tu uno yazida?” chiedo.

“No, io sono di Lione, sono partito in bici qualche mese fa e sono di passaggio in Armenia, il mio punto di arrivo sarà il Cile. Quando ci sarò arrivato tornerò in Francia”.

Uno strambo. Mi racconta che è un ingegnere nucleare dimissionario in fuga dalle logiche capitalistiche. Parola d’ordine, decrescita felice. Mi prepara a sua volta un caffè nella sua moka portatile. Poco dopo si palesa una signora timidissima, con delle pantofole pelose, una tunica coprente e un baffetto evidente. Mi intenerisce perché ha quasi paura di palesarsi per allestirci un ricco pranzo, sembra aver paura di interagire con noi e non si siede al nostro tavolo. Sembra voler, dover, rimanere in disparte.

In questo momento di convivialità emergono i tratti salienti della causa e dell’identità yazida. E’come se volessero rendere noi stranieri empatici con la loro situazione, intendendo dare voce alle ingiurie subite, temendo che il loro popolo venga dimenticato nell’oblio. Vicino al nostro tavolo c’è un poster di Lalish, la roccaforte spirituale degli yazidi, vicino a Mossul. Lo descrivono come un paradiso perduto, sanno che non ci torneranno più. “Per noi, per i veneratori del pavone, ossia del diavolo, secondo i musulmani, non c’è spazio in quella terra”. Questa faida insanabile è una delle ragioni per cui il colore blu è un taboo nel mondo yazida: “Il blu è il colore che l’esercito ottomano e i curdi musulmani vestivano quando devastarono i nostri villaggi. L’islam per noi rappresenta la schiavizzazione della fede, dell’essere umano”, mi spiega lo sceicco. Proviamo a sdrammatizzare guardando il profilo social di questi signori, sono molto attivi! Reel con rap turco sparato e attività comunitarie ferventi.

Qualcuno esclama “ma è musica turca!”

“No, non è turca, non lo è, no”. Risponde secco lo sceicco.

Il grande capo ora ci chiede di sedere. Vuole leggerci qualcosa, invita lo strambo francese a recitare un documento in inglese. E’una bozza dello Statuto yazida, in cui risulta che solo uno sparuto numero di stati della comunità internazionale riconoscono la Rappresentanza Yazida. L’obiettivo? Sperare che il genocidio subito nel 2014 venga riconosciuto, nemmeno si parla di compensazione. Il fulcro della loro lobby ha sede tra Austria e Germania, proprio lì è stato redatto il lungo foglio che stiamo leggendo, dove si enumerano le vittime, i massacri, il silenzio internazionale, l’umiliazione. Che ne sapevo io fino a quel momento?

Avevo letto un fumetto di Zerocalcare, No sleep till Shengal, ne accennava brevemente.Sapevo che il crimine di genocidio verso gli yazidi era già stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, dal Parlamento Europeo e da numerosi Paesi tra cui Gran Bretagna e Armenia. Lo sterminio, iniziato a partire dal 3 agosto 2014, è stato testimoniato dal ritrovamento di oltre sessanta fosse comuni in zone dell’Iraq che fino al 2019 erano sotto il controllo dello Stato Islamico. Secondo le stime rese note dalle Nazioni Unite, circa 5mila ragazzi e uomini yazidi sono stati rapiti e massacrati e 7mila ragazze e donne sono state schiavizzate sessualmente. Una di loro è stata Nadia Murad, premio Nobel per la pace nel 2018. Oltre 3mila persone sono ancora disperse tra le montagne del Sinjar e il Kurdistan iracheno. Vorrei chiedere cosa ne pensano di quella legge approvata dal Parlamento iracheno nel 2021, alla vigilia della storica visita del Papa, la Yezidi Female Survivors. Questa legge prevede di compensare e reintegrare nella società anche i componenti minoranza cristiana, turkmena e shabak: si applica a «ogni donna oggetto di rapimento, riduzione in schiavitù sessuale, venduta, separata dai genitori, costretta a cambiare religione, al matrimonio forzato, a gravidanza e aborto forzato, danneggiata fisicamente o mentalmente dal Daesh ». E’ estesa anche ai bambini «sotto i 18 anni al momento del rapimento» e agli uomini «che sono sopravvissuti alle uccisioni di massa». Tuttavia, non oso chiedere nulla. Forse questa legge non è abbastanza, forse non me ne hanno parlato per questo. So solo che la legge è il primo riconoscimento del “genocidio” sul piano legale da parte del governo iracheno ed è un punto di partenza per l’imputazione dei crimini contro l’umanità a Daesh/Isis. Spero che potranno avere la giustizia che meritano. Credo che lo sperino anche loro, nonostante sembrino solo temere, visibilmente, che la loro sofferenza venga dimenticata. Vogliono solo che la loro voce venga sentita.

Io sono uno yazida

E’tempo di andarsene, ci attende ancora un lungo viaggio ghiacciato fino a Gyumri. Berj piomba in sala e dice “ma cosa sta succedendo con questi yazidi!”, prima di aggiungersi al banchetto. Poi esclama “conosco Lalish!”, indicando il poster. Ci augurano buon viaggio, ringraziandoci per averli ascoltati, lasciandoci una copia della loro gazzetta locale. Lo sceicco mi fissa con quegli occhi neri, liquidi, assoluti: “fate ritorno da noi presto, cari amici, questa è la vostra casa, ora conoscete gli yazidi”. Prima di andarcene chiedono di scattare una foto ricordo, solo un attimo, vado verso la cucina.

“Ehi! Ti volevo dire che sei una cuoca eccellente, quell’insalata georgiana era squisita! Ti va di fare una foto con noi?”

Net..net…”, si schernisce.

Davaj! Non succede nulla, non farò la foto se non comparirai anche tu, vicino a me! Prendi la mia mano”.

Mi sorride. Mi stringe la mano fortissimo, ricambio.

“Va tutto bene”, le dico. Mi sembra che non sia abituata ad osare tanto, che non creda di potersi unire a noi. Mi sorride con imbarazzo e una genuina felicità, forse è riconoscenza? Non credo di meritarla. Scattiamo la foto tutti assieme, non lascia mai la mia mano.

“Grazie di averci accolto, amica mia, a presto”.

Così, togliamo il disturbo.

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