La Valle di Khalil Gibran

Pietà per la nazione piena di credo ma vuota di religione

Pietà per la nazione che indossa abiti che non ha tessuto, mangia pane che non ha mietuto e beve vino che non è colato dai suoi torchi

Pietà per la nazione che acclama il violento come eroe e considera generoso il corrusco conquistatore

Pietà per la nazione che non leva la voce se non durante i funerali, che cerca le glorie solo fra le rovine e che non si ribella dopo che ha piegato il collo tra il ceppo e la spada

Pietà per la nazione il cui governante è una volpe, il filosofo un prestigiatore e la cui arte è l’arte del rattoppo e della parodia

Pietà per la nazione che accoglie al suono di tromba il nuovo sovrano e gli dà l’addio con grida di abbasso, per poi accoglierne di nuovo un altro a suon di tromba

Pietà per la nazione in cui i saggi sono resi muti dagli anni e in cui gli uomini forti sono ancora nella culla

Pietà per la nazione divisa in frammenti, ognuno dei quali si considera una nazione.

(“Il giardino del profeta”, K.G.)

Così Khalil Gibran descriveva la sua amata terra, fuggita e rimpianta in terra americana. La ragione principale per cui avevo intrapreso il mio viaggio in Libano era proprio questa, per vedere dove questo poeta e artista visionario fosse nato e cresciuto.

La notte precedente ci eravamo date appuntamento con gli armeni. Forse la sera successiva ci saremmo incontrati nel tardo pomeriggio ad Anfeh, il covo dei libanesi di culto greco-ortodosso sul litorale poco distante da Tripoli. Una specie di minuscola isola greca trapiantata nei lidi libanesi. Tutto sarebbe dipeso dai nostri programmi, che alla rinfusa prevedevano Bcharre, la Valle dei Cedri, il Monastero di Sant’Antonio dell’ordine maronita sperduto tra i boschi della Valle di Qadisha, la città di Tripoli e infine, forse, Anfeh. In tutto ciò, la mia compagna di viaggio si accorse accidentalmente che quella stessa notte avrebbe dovuto prendere il suo volo di ritorno per Atene.

La Valle di Khalil Gibran

Quella mattina avevo fatto colazione in ostello con una compagna di stanza, era in servizio all’Ambasciata belga. Davanti al nostro labneh mi raccontava che c’erano state delle segnalazioni di allerta terroristica nell’area di Tripoli, la roccaforte sunnita del Libano.

Ad ogni modo non avevo idea di come raggiungere le nostre mete, ovviamente. Un autobus operava giornalmente nella tratta Beirut-Bcharre per una durata di circa tre ore e mezza, senza eventuale collegamento per la Valle dei Cedri e Tripoli. Andai in reception. Un po’ per sbaglio incontrai un tassista che aspettava di prendere il servizio per una comitiva, così colsi l’occasione per proporgli una tariffa giornaliera di 70 dollari tutto compreso. Mi propose 90 dollari, e bleffai sul fatto che per 90 dollari avrei scorrazzato ovunque con Uber. “We remain friends, no problem”. Intanto avevo pensato a riparare altrove. Più tardi, sempre il tassista, un vago sosia di Bob Marley, tornò con la sua sigaretta fumante e i suoi riccioletti spettinati, beh avevamo vinto. Gli avevano annullato il suo turno giornaliero, così per 70 dollari partimmo con Ziad.

Ziad era originario di Harissa, un tizio molto solare e rallegrato dai prelibati fumi della valle della Bekaa.. parlava bene l’inglese tanto quanto il francese, era un cristiano maronita. Si piaceva molto, Ziad, tanto che alternava l’attenzione alla strada a quella dei suoi stupidi ricciolini scapigliati guardandosi sullo specchietto retrovisore. Pensava, o sperava, di piacere evidentemente anche a noi, o almeno questo iniziò a trapelare quando ci propose di fermarsi per la sua colazione-knafeh e ci mostrò di essere il testimonial di Wonder Wafer, una sorta di super delicious Loacker arabo. Ok, grazie dell’informazione. Mi invitò anche ad accompagnarlo a un casting per un nuovo spot pubblicitario il giorno seguente, pensava che saremmo stati una buona accoppiata. Era molto felice di essere in compagnia di due ragazze italiane. Cercò di dimostrarcelo anche quando passando per Jounieh, la Montecarlo del Libano, si spacciò per un grande ex frequentatore dei maggiori night club, di cui ci spiegò prezzi (d’accesso, delle signorine dell’est o del nord e centro Africa, dei pacchetti “all-inclusive”), caratteristiche dei principali avventori. Un opinabile tentativo di fare colpo. Appurato ormai che fosse irritante e che ci avrebbe sicuramente fatto perdere tempo, cercai di focalizzarmi sulla nostra rotta.

La Valle di Khalil Gibran

Bcharre

Per mezzogiorno eravamo finalmente arrivate a Bcharre.

Lamartine aveva definito i cedri, menzionati in Mesopotamia già nell’epopea di Gilgamesh più di 5000 anni fa, i “più famosi monumenti naturali del mondo”, gli stessi che si estendevano fino alla Siria e alla Palestina, che erano stati utilizzati per costruire il tempio di Gerusalemme, rimasti oggi solo a Bcharre, sulle cime di Baruk e sulle montagne dello Shuf, aggrappati alla vita tra le alture, il ghiaccio e il vento. Il cedro è il simbolo del Libano, costretto nel tricolore rosso e bianco della bandiera, impresso sui passaporti, dipinto sulle code della Middle East Airline, arraffato dagli stendardi di più partiti. Il cedro è sicuramente la sintesi del grande paradosso di questo paese: compare raffigurato ovunque, ma di fatto giace ironicamente solo nella valle di Qadisha, in una riserva naturale preziosissima e dal valore quasi sacrale (tant’è che gli oggetti in legno di cedro possono essere oggi fabbricati solo a patto che la materia prima sia caduta o morta spontaneamente). Trovavo e trovo tutt’ora strano che un intero popolo possa universalmente identificare la propria anima con qualcosa che quasi non esiste più. In realtà, il cedro è proprio l’ultimo vero tesoro sopravvissuto al martirio delle guerre, è la ricchezza intoccabile del paese, proprio per la sua immortalità.

La Valle di Khalil Gibran

Da queste parti, in una giornata limpida e raffrescata dalla brezza di montagna, incontrammo la tomba-museo di Khalil Gibran. Proprio in mezzo a questi boschi lui stesso chiese alle sorelle di essere sepolto, dopo una vita di esilio. Il museo racchiudeva una raccolta dei suoi scritti e delle sue principali opere iconografiche, di cui voglio ricordarne uno in particolare “Il mondo divino”. Mari mi aveva raccontato che il suo coinquilino aveva affisso proprio sulla soglia dell’entrata di casa a Yerevan quest’immagine, e che prima di uscire ogni volta schiaffava il cinque a quell’occhione a centro palmo. Sembrava un soggetto di Salvador Dalì. Mi sarebbe poi stato spiegato che quell’opera, “il terzo occhio”, rappresentava il terzo occhio invisibile di cui l’uomo dispone una volta raggiunta la propria consapevolezza spirituale, iniziando a vedere le cose da una diversa prospettiva o riuscendo a scorgere ciò che prima risultava ineffabile.. L’evoluzione personale è semplicemente l’aumento della sensibilità, fino al punto in cui nulla più si frappone tra l’individuo e la realtà, e si arriva a concepirla nella sua totalità. Questo è possibile perché l’individuo è immanente alla materia e a Dio, ed ha perciò tutte le risorse per comprendere perfino il momento più alto della spiritualità. La Vita è tutto quello che c’è e non necessita di intermediari per essere compresa, un punto di vista del tutto anticlericale. Per questo Gibran afferma che Dio è qui, proprio ora. Il pensiero di questo grande intellettuale è un seducente miscuglio di misticismo e pragmatismo, di evoluzionismo e vitalismo, di cristianesimo e panteismo, di Occidente e Oriente. La morbida dolcezza dei suoi versi e l’armoniosità del loro ritmo trasportano il lettore in una sorta di paradiso a buon mercato, dove tutto è suadente, scintillante, rassicurante, proprio come la sua stessa idea di trasmigrazione dell’anima, e il fatto stesso che Dio si evolva e prescinda da noi, senza dettarci alcuna regola. Non è forse lui stesso figlio della nostra stessa costruzione?

La Valle di Khalil Gibran

Pensavo e ripensavo a questo affacciata ad un largo balcone sulla valle di Bcharre, mentre io e Mari aspettavamo Ziad, che infine si era deciso a visitare per la prima volta il museo. Da quanto avevo colto in quella settimana di viaggio, per capire i maroniti c’era solo un posto dove recarsi, ed era Bcharre. In fondo al burrone di Qannubin i primi eremiti maroniti trovarono rifugio dalla persecuzione bizantina del VI secolo, scappando dalla Siria. La cittadina era anche nota per essere la sede di addestramento delle truppe della Falange libanese, il partito fondato da Pierre Gemayel, nonché la patria del celebre Samir Geagea, che aveva guidato i miliziani falangisti negli omicidi di massa di Sabra e Chatila, Karantina, Tell el-Za’atar, El-Helvech e nell’eliminazione dei suoi rivali maroniti nei loro letti. Chissà, molti degli uomini che commisero queste atrocità potevano effettivamente trovarsi ora appollaiati con una shisha, un tè alla menta o un caffè in uno dei bar di Bcharre, un tempo una rinomatissima località sciistica. Un agglomerato di case di pietra dai tetti rossi arroccate sul dirupo di Qadisha, di tanto in tanto alternate alle torri di qualche chiesa in finto gotico francese, che abbondavano numerose proprio per marcare l’orientamento religioso del luogo. Sembrava verosimilmente un borgo montano europeo, se non fosse per la straordinaria conformazione geologica del luogo e l’aroma dei sapori mediorientali che lo collocavano geograficamente più a Oriente.

Insomma, la valle di Qadisha, patrimonio dell’umanità, era un grande santuario cristiano nel cuore montuoso del Libano, una serie ininterrotta di monasteri rupestri dove ancora oggi risuona l’eco di antiche preghiere in aramaico, greco, latino, arabo. La presenza cristiana è riscontrabile anche nei manifesti politici in città, sono tutti di partiti cristiani: si, qui la religione è identità, cultura, politica, lo sancisce anche la costituzione pluriconfessionale e settaria del 1943. La composizione del Parlamento libanese è infatti molto rigida e suddivisa come segue:

Cattolici maroniti: 34 seggi

Cristiani greco-ortodossi: 14 seggi

Cattolici greco-melchiti: 8 seggi

Apostolici armeni: 5 seggi

Cattolici armeni: 1 seggio

Protestanti evangelici: 1 seggio

Altre minoranze cristiane: 1 seggio

Sunniti: 27 seggi

Sciiti: 27 seggi

Alawiti: 2 seggi

Drusi: 8 seggi

E inoltre

– il presidente della Repubblica deve sempre essere un cattolico maronita

– il primo ministro deve sempre essere un musulmano sunnita

– il presidente del Parlamento deve sempre essere un musulmano sciita

– il vicepresidente del Parlamento e il vice primo ministro devono sempre essere cristiani greco-ortodossi

E che ne è delle altre minoranze? Per esempio, il mio amico armeno-libanese avrebbe mai potuto diventare premier, mi chiedevo ingenuamente? La risposta è no, e presto avrei verificato come appunto le minoranze rappresentate in parlamento ma escluse dalle cariche apicali si siano sempre rivelate kingmakers nella creazione di coalizioni o stalli politici, seppur in possesso di uno sparuto numero di seggi. Trattasi di falle di una Costituzione vetusta che sa molto di governance mediterranea, incline al mantenimento di gruppi di potere suscettibili alla corruzione. Meglio la stasi del rebus sic stantibus, a costo di non avere di fatto un governo alla guida del Paese, piuttosto che l’aggiornamento di un sistema politico in senso più inclusivo ed efficiente. Old story.

Presa dalla spensieratezza e giovialità di quella che si era ormai trasformata in un’assolata scampagnata in montagna, con il nostro google maps inceppato e la batteria di Ziad scarica, commisi un’ingenuità: “Ah ma quindi tu voti questi?” Una domanda posta nella stupidità e nel qualunquismo più inopportuno, che probabilmente in Italia non avrebbe mai creato alcuno scompenso. Ziad cambiò espressione, d’un tratto si scurì in volto, levò la vista dalla strada e guardandomi negli occhi mi disse: “Perché me lo chiedi?”. In quel momento realizzai quanto fosse stato sbagliato porre un quesito di quel genere, seppur ingenuamente. Quanto in realtà una domanda simile potesse sottendere ricordi, delitti e retroscena complessi in quella parte del mondo. In quel preciso istante capii che mai più avrei dovuto chiedere in Libano un’informazione del genere con tale leggerezza, o forse che non avrei proprio dovuto pensare di formularla, senza un qualche tipo di protezione o tutela. La mia indiscreta curiosità poteva aspettare. Il suo sguardo mi aveva raggelato. Venni a capo del fatto che anche nel momento di maggiore distensione e divertimento, la domanda sbagliata al momento più imprevisto avrebbe potuto cambiare le cose, rendendo la nostra presenza sospetta, i nostri discorsi pretenziosi, la nostra simpatia superflua, la sua socievolezza un ricordo. Cambiai discorso, ricordandogli che avevamo cose più importanti a cui pensare, tipo arrivare al Monastero di Sant’Antonio a Qozhaya, che non facesse finta di dimenticarsi! Ma avevamo tutti fame, e Mari aveva trovato un rifugio stupendo senza sapere come, era scritto tutto in arabo anche su google (credo si chiamasse “Cedar’s Heaven”).

Beh, sostammo su una vera e propria terrazza sulla Valle, intrufolandoci in una festa di battesimo maronita, sbafandoci il solito fattoush, hummus e bagno di delizie libanesi, arak incluso.

Avremmo raggiunto Anfeh?

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