La Valle di Khalil Gibran

La Valle di Khalil Gibran

Claudia Zecchin

La Valle di Khalil Gibran Claudia Zecchin Pietà per la nazione piena di credo ma vuota di religione Pietà per la nazione che indossa abiti che non ha tessuto, mangia pane che non ha mietuto e beve vino che non è colato dai suoi torchi Pietà per la nazione che acclama il violento come eroe e considera generoso il corrusco conquistatore Pietà per la nazione che non leva la voce se non durante i funerali, che cerca le glorie solo fra le rovine e che non si ribella dopo che ha piegato il collo tra il ceppo e la spada Pietà per la nazione il cui governante è una volpe, il filosofo un prestigiatore e la cui arte è l’arte del rattoppo e della parodia Pietà per la nazione che accoglie al suono di tromba il nuovo sovrano e gli dà l’addio con grida di abbasso, per poi accoglierne di nuovo un altro a suon di tromba Pietà per la nazione in cui i saggi sono resi muti dagli anni e in cui gli uomini forti sono ancora nella culla Pietà per la nazione divisa in frammenti, ognuno dei quali si considera una nazione. (“Il giardino del profeta”, K.G.) Così Khalil Gibran descriveva la sua amata terra, fuggita e rimpianta in terra americana. La ragione principale per cui avevo intrapreso il mio viaggio in Libano era proprio questa, per vedere dove questo poeta e artista visionario fosse nato e cresciuto.

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La notte precedente ci eravamo date appuntamento con gli armeni. Forse la sera successiva ci saremmo incontrati nel tardo pomeriggio ad Anfeh, il covo dei libanesi di culto greco-ortodosso sul litorale poco distante da Tripoli. Una specie di minuscola isola greca trapiantata nei lidi libanesi. Tutto sarebbe dipeso dai nostri programmi, che alla rinfusa prevedevano Bcharre, la Valle dei Cedri, il Monastero di Sant’Antonio dell’ordine maronita sperduto tra i boschi della Valle di Qadisha, la città di Tripoli e infine, forse, Anfeh.

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In tutto ciò, la mia compagna di viaggio si accorse accidentalmente che quella stessa notte avrebbe dovuto prendere il suo volo di ritorno per Atene. Quella mattina avevo fatto colazione in ostello con una compagna di stanza, era in servizio all’Ambasciata belga. Davanti al nostro labneh mi raccontava che c’erano state delle segnalazioni di allerta terroristica nell’area di Tripoli, la roccaforte sunnita del Libano.

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Ad ogni modo non avevo idea di come raggiungere le nostre mete, ovviamente. Un autobus operava giornalmente nella tratta Beirut-Bcharre per una durata di circa tre ore e mezza, senza eventuale collegamento per la Valle dei Cedri e Tripoli. Andai in reception. Un po’ per sbaglio incontrai un tassista che aspettava di prendere il servizio per una comitiva, così colsi l’occasione per proporgli una tariffa giornaliera di 70 dollari tutto compreso. Mi propose 90 dollari, e bleffai sul fatto che per 90 dollari avrei scorrazzato ovunque con Uber. “We remain friends, no problem”.

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Intanto avevo pensato a riparare altrove. Più tardi, sempre il tassista, un vago sosia di Bob Marley, tornò con la sua sigaretta fumante e i suoi riccioletti spettinati, beh avevamo vinto. Gli avevano annullato il suo turno giornaliero, così per 70 dollari partimmo con Ziad. Ziad era originario di Harissa, un tizio molto solare e rallegrato dai prelibati fumi della valle della Bekaa.. parlava bene l’inglese tanto quanto il francese, era un cristiano maronita. Si piaceva molto, Ziad, tanto che alternava l’attenzione alla strada a quella dei suoi stupidi ricciolini scapigliati guardandosi sullo specchietto retrovisore. Pensava, o sperava, di piacere evidentemente anche a noi, o almeno questo iniziò a trapelare quando ci propose di fermarsi per la sua colazione-knafeh e ci mostrò di essere il testimonial di Wonder Wafer, una sorta di super delicious Loacker arabo.

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Ok, grazie dell’informazione. Mi invitò anche ad accompagnarlo a un casting per un nuovo spot pubblicitario il giorno seguente, pensava che saremmo stati una buona accoppiata. Era molto felice di essere in compagnia di due ragazze italiane. Cercò di dimostrarcelo anche quando passando per Jounieh, la Montecarlo del Libano, si spacciò per un grande ex frequentatore dei maggiori night club, di cui ci spiegò prezzi (d’accesso, delle signorine dell’est o del nord e centro Africa, dei pacchetti “all-inclusive”), caratteristiche dei principali avventori. Un opinabile tentativo di fare colpo. Appurato ormai che fosse irritante e che ci avrebbe sicuramente fatto perdere tempo, cercai di focalizzarmi sulla nostra rotta.

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Bcharre Per mezzogiorno eravamo finalmente arrivate a Bcharre. Lamartine aveva definito i cedri, menzionati in Mesopotamia già nell’epopea di Gilgamesh più di 5000 anni fa, i “più famosi monumenti naturali del mondo”, gli stessi che si estendevano fino alla Siria e alla Palestina, che erano stati utilizzati per costruire il tempio di Gerusalemme, rimasti oggi solo a Bcharre, sulle cime di Baruk e sulle montagne dello Shuf, aggrappati alla vita tra le alture, il ghiaccio e il vento. Il cedro è il simbolo del Libano, costretto nel tricolore rosso e bianco della bandiera, impresso sui passaporti, dipinto sulle code della Middle East Airline, arraffato dagli stendardi di più partiti.

Il cedro è sicuramente la sintesi del grande paradosso di questo paese: compare raffigurato ovunque, ma di fatto giace ironicamente solo nella valle di Qadisha, in una riserva naturale preziosissima e dal valore quasi sacrale (tant’è che gli oggetti in legno di cedro possono essere oggi fabbricati solo a patto che la materia prima sia caduta o morta spontaneamente). Trovavo e trovo tutt’ora strano che un intero popolo possa universalmente identificare la propria anima con qualcosa che quasi non esiste più. In realtà, il cedro è proprio l’ultimo vero tesoro sopravvissuto al martirio delle guerre, è la ricchezza intoccabile del paese, proprio per la sua immortalità. Da queste parti, in una giornata limpida e raffrescata dalla brezza di montagna, incontrammo la tomba-museo di Khalil Gibran.

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