L’itinerario sarebbe iniziato da Tbilisi, avrei noleggiato una macchina, forse una di quelle jeep sgangherate che i cataloghi dei rental cars online propinano a prezzi stracciati, e mi sarei diretta verso Batumi, sul Mar Nero, nell’antica Colchide. Dopo una breve pausa nella mondana località balneare, osannata dai georgiani, altresì nota come la “Las Vegas” della Georgia, avrei proseguito verso Sarpi, al confine con la Turchia. Da lì sarebbe iniziata l’avventura nell’oblio turco, verso Trabzon (Trebisonda), una città leggendaria, l’ultimo baluardo bizantino ad essere stato conquistato dai turchi ottomani nel 1461. Avrei visitato il monastero di Sumela, incastonato tra i rilievi turchi, e da lì forse sarei ripartita soddisfatta. “Quando ti ricapiterà di essere lì, around?”, mi ripeteva il capoufficio nelle pause caffè dei giorni feriali, “you should go”. Ma non andai.

La seconda volta che il governo azero mi chiese di uscire dal Paese per via del mio visto in scadenza, tornai in Georgia. Era il 7 luglio 2018. Sentivo di avere ancora qualcosa da scoprire, lì. O semplicemente ero stata così bene da volerci tornare. Strano, un viaggiatore curioso non torna mai sul terreno battuto, ma tant’è. Io Francesco e Federica, compagni di avventura ideali, partimmo dall’aeroporto di Baku la notte del sabato sera, volando coraggiosamente con la compagnia low-cost azera “Buta Airways”. Atterrammo allo Shota Rustaveli di Tbilisi in una notte di mezza estate piovosa e umida. Ero pronta a sfidare gli avidi tassisti georgiani per raggiungere il nostro Airbnb, a mezz’ora di strada dall’aeroporto. Avevo 30 lari con me dal viaggio precedente, non avrei sganciato una copeca in più. E a 30 lari prendemmo il nostro taxi, in barba alla stancante contrattazione. L’appartamento era in una laterale di Rustaveli street, un quartiere dai palazzi imponenti ed eleganti, alcuni diroccati, altri maestosi, incorniciati da strade lastricate di memoria parigina. Ci accolse Keti, un’affettuosa donna bionda di mezza età, che ci fece trovare una bottiglia di bianco dello Chateau Mukhrani in frigo. Poi ci affrettammo ad uscire, quella sera Croazia e Russia si giocavano i quarti di finale dei mondiali di calcio 2018, non potevamo perderci i rigori. La figlia di Keti ci indicò un paio di vie in cui avremmo trovato un maxi-schermo, e così ci mischiammo alla piazza.
Inutile dire che la folla georgiana supportava la Croazia, mentre noi tre, russisti più o meno russofili, ci trovavamo nel posto sbagliato. Le ragazze georgiane di fronte a noi esplosero in gioiosi schiamazzi quando la Croazia si aggiudicò la semifinale mondiale, e così tutto il resto della folla. La guerra mai iniziata con i russi si era “conclusa” solo nel recente 2008, le giovani generazioni sentivano ancora forte e acuta la lesione dei propri confini. “Quando vengono qui pretendono che gli si parli nella loro lingua”, lamentava una ragazza di Tbilisi, riferendosi ai russi. Tornammo a casa, soprattutto quando Francesco dichiarò di tifare Russia e divenne rapidamente persona non grata.
L’indomani ce ne andammo fuori città, alla scoperta dell’antica capitale della Georgia, l’impronunciabile Mtskheta. Partimmo dopo pranzo con un taxi. Mtskheta fu capitale del primo regno georgiano, la cosiddetta Iberia caucasica, tra il III sec. a.C. e il V sec. d.C., sebbene le rovine della città risalgano a prima dell’anno 1000 a.C., periodo a cui si attribuisce la realizzazione dell’acropoli tutt’ora esistente. Qui i georgiani si convertirono al Cristianesimo nel 317 d.C, stabilendo la sede della Chiese apostolica autocefala ortodossa georgiana. La cattedrale di Svetitskhoveli (XI sec.) ed il Monastero di Jvari (VI sec.) sono tra i monumenti più significativi dell’architettura cristiana georgiana, fondamentali per lo sviluppo artistico medievale del Caucaso. Di particolare importanza sono le prime iscrizioni parietali all’interno della cattedrale, interessanti per lo studio delle origini del primo alfabeto georgiano.

Mtskheta rimase il centro politico della Georgia fino al VI sec. d.C, quando venne scalzata dalla più difendibile Tbilisi. Tuttavia, Mtskheta continuò ad essere il luogo di incoronazione e sepoltura dei re georgiani fino alla fine del regno, avvenuta nel XIX secolo. Al primo sguardo di un viaggiatore Mtskheta appare come una città molto raccolta, a misura d’uomo, costruita nella sua pietra rossa, spesso colorata dai numerosi churchkhela penzolanti (dolci tipici ricoperti al mosto d’uva) che piovono dai negozietti di souvenir e dai banchi di frutta fresca, un luogo tranquillo, placido, che giace sulla confluenza di due fiumi, la Kura e l’Aragvi. Le vie laterali del centro sono un sicuro rifugio per i georgiani che “vogliono fuggire dal caos di Tbilisi”, riposando nella propria dacia, in un luogo dormiente, spirituale, idilliaco, meta di pellegrinaggio di turisti e credenti, in maggioranza ortodossi. L’origine della cattedrale di Svetitskhoveli è avvolta nella leggenda. Si narra che qui sia stata sepolta la Tunica di Cristo, quando Elias la portò qui nel I sec. d.C, consegnandola alla sorella Sidonia, che morì in preda all’estasi religiosa. Sidonia venne sepolta assieme alla reliquia vicino alla confluenza dei due fiumi, dove nel secolo XI fu eretta l’odierna cattedrale.
Al nostro ingresso la cattedrale profumava intensamente di incenso e la sua pietra antica conferiva un’amabile frescura. Era molto caldo quel giorno. Quando entrammo nella cattedrale non v’era luce alcuna, se non la flebile e rarefatta che filtrava da qualche finestra, giusto per illuminare gli affreschi parietali, ancora meravigliosi. Solo in alcune parti l’intonaco si era scrostato, ma per la maggior parte i cicli di affreschi si erano incredibilmente salvati. Vi era anche un’antica riproduzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che avevo casualmente visto qualche mese prima. Pensai che la sua ricostruzione di fronte a me fosse quasi più bella dell’originale, più autentica, più solitaria, libera dalle masnade di visitatori esaltati. Mi piaceva stare a scrutare i credenti alla Svetitskhoveli, da un angolo della chiesa.
Molte erano le babushke (nonne) che passavano la mancia ai nipotini per accendere le tradizionali, lunghe e affusolate candele di cera fatte a mano, per poi piantarle sulla sabbiolina. Vago ricordo infantile di domeniche estive al mare, quando non vedevo l’ora che finisse la messa per accenderne una con mia nonna e affondare le manine sulla cera sciolta e ancora ardente delle candele spente. Mi sentii solo felice nel vedere che l’infanzia di altri bambini nel mondo avrebbe potuto serbare gli stessi ricordi che con tanta gelosia portavo nel cuore. Anche un agnostico dubbioso sa apprezzare l’unicità dei momenti di aggregazione e pace che possono derivare da un luogo come questo. Così continuavo ad osservare chiunque. Era fino a quel momento il luogo di culto più mistico che avessi visto in Georgia e Azerbaijan.

Visitammo poi il Monastero di Samtravo, dove giaceva il sito in cui Santa Nino, missionaria della Cappadocia del IV sec., aveva pregato e vissuto, accanto all’edificio più imponente (XI sec.) dove erano sepolti i primi re convertiti della Georgia, Re Mirian e la Regina Nana. All’uscita incontrammo un egiziano del Cairo e una ragazza francese di Lille, con cui avremmo condiviso la tratta Mtskheta-Jvari accalcandoci in un taxi scassato.
Il Monastero di Jvari si trova a 11 km dalla città bassa, è arroccato su un monte che si affaccia sulla confluenza della Kura e dell’Aragvi e sulla città di Mtskheta. Qui Santa Nino eresse la prima croce a simbolo della conversione della Georgia al Cristianesimo, e dopo due secoli il principe Stepanov vi costruì l’odierno monastero con pianta a croce (“Jvari”=croce), isolato da tutto e tutti, ma visibile da ogni punto della valle sottostante. Avevamo raggiunto il sito attraverso un sentiero ricco di ulivi, e altrettanti ulivi riparavano qualche monaco affaticato e seduto accanto al santuario, lì in cima, sul tetto della Georgia. Nel frattempo, era subentrata qualche nuvola, sembrava voler piovere da un momento all’altro. C’era una leggera bruma. Le nuvole nere si opponevano ai raggi del sole, che continuavano a specchiarsi sui due fiumi sottostanti. Avrei voluto che piovesse. C’era tanto ossigeno, si respirava. Sembrava di poter abbracciare l’intera valle, assieme al vento, dalla solennità di Jvari. Federica mi disse incantata :”Sembra la luce di Dio”.


Tornammo a Tbilisi con una marshrutka (piccolo pullman) condivisa a un lari ciascuno (30 centesimi), stando in piedi fino alla fermata del mercato di “Didube”, un informe ammasso di frutta e verdura, scarpe ed oggetti per la casa esattamente in mezzo alla stazione delle navette e bus extraurbani (Tbilisi-Batumi, Tbilisi-Kutaisi ecc). Uno stralcio della “vera Tbilisi”, o dell’intatto retaggio sovietico. Da lì sarebbe partita la metro per il centro città. Quella sera avremmo rincasato di buon’ora, giusto in tempo per incontrare Keti, che ci aveva accolto con delle fette di anguria, uscire per cena, e infilarsi a letto.


In Russia vige un certo detto in merito al primo giorno della settimana: “понедельник – тяжёлый день”, ovvero “il lunedì è un giorno pesante, un macigno”. Il 9 luglio 2018 fu invece un lunedì alquanto inedito. Mi avevano detto in tanti di non andare a David Gareja, perché la strada era così impervia e dissestata che i mezzi pubblici non ci arrivavano, perché era lontano, al confine con l’Azerbaijan, perché anche una volta arrivata avrei dovuto scalare a piedi nudi una montagna per un’ora e mezza sotto il sole per riuscire a vederne le bellezze, attraverso un sentiero scosceso e inaccessibile, in compagnia di bisce e serpenti. Sembrava una favola, non ci credevo. Ma una mia compagna di studi che aveva vissuto sei mesi in Georgia due anni prima mi aveva raccomandato David Gareja, era stata l’unica, e di lei mi fidavo, mi conosceva bene. Così decidemmo di partire..
[continua..]

