Samarcanda – ch.I


Stazione di Tashkent, 8.30 del mattino

E’ un giorno così strano, questo. Sono in Uzbekistan per lavoro, pare che a breve salirò su un treno che mi porterà a conoscere un nostro cliente. Destinazione? Samarcanda. Sembra uno scherzo. “Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini”, scriveva Marco Polo, qualche secolo fa. Anch’io oggi, proprio in veste di mercante cristiano (quasi veneziano) sarò in quella città tanto sognata, forse a stupirmi che esista davvero.

Samarcanda – ch.I

Mi presento in stazione intontita, il caldo secco della steppa a luglio vince le massicce dosi di caffeina ingerite a colazione, credevo bastassero assieme alla mia solita kasha energetica e un vestitino lungo e svolazzante per fronteggiare una giornata di viaggio bollente. L’ipotensione estiva mi imbambola nel pensiero della Samarcanda del mito, chissà, se ritroverò le atmosfere languide, colorate, profumate immaginate nelle autosuggestioni orientaliste. I passeggeri che circolano per la hall sembrano avere i piedi più ancorati a terra di me.

Samarcanda – ch.I

Alcuni sgranocchiano, come di consueto da queste parti, i semi di girasole, altri prendono posto accatastando bagagli, bisacce, provviste di ogni sorta. Seppur sembri di essere all’interno di un grande centro commerciale, gli esercizi di fast food non esistono. Ci sono piuttosto delle sorte di stazioncine, di banchi del mercato, in cui si vendono al dettaglio le cose più svariate: ceste di pane uzbeko dal diametro esagerato, sigarette, succhi di melograno, giocattoli, fazzoletti, le iconiche barrette di cioccolato al latte con il famoso faccino di Alenka, direttamente da Mosca. Poi vedo spiccare un armadio a due ante, un marcantonio di due metri che prenderà il mio stesso treno Afrosiyob (l’antico nome di Samarcanda), che in due ore di alta velocita ci porterà a destinazione. Il treno è confortevole, così tanto che invece di immergermi nel paesaggio uniforme della steppa vengo risucchiata dall’imbuto del sonno, solo la signorina del tè mi sveglia per abbeverarmi e passarmi una merendina al sacco offerta dalla compagnia ferroviaria. D’altronde siamo sulla Via della Seta, il tè è rito, ritmo, contemplazione.

A Samarcanda mi aspetta un autista dal nome impronunciabile, occhietti allungati e simpatici, solita frangetta corvina che va di moda da queste parti, parla bene inglese, ha lavorato in Uk per anni in un pub. La stazione tenta di ricordare il palazzo del Registan nelle tonalità, o quantomeno i sovietici ci hanno provato. Rivedo lo spilungone, che mi sorride, e poi cambio strada, oggi non prevedo di dedicare del tempo a fare nuove conoscenze. Dopo poco sono alla Caffetteria Chocolat per il mio appuntamento, dove spicca una bizzarra Sachertorte senza l’ombra di cioccolato, chissà, forse sarà la ricetta uzbeka. Pranzo a base di riso pilaf, mi rimetto in moto, dirigendomi verso il palazzo del Registan. Le strade di Samarcanda sono un dejavu, mi ricordano il quartiere dove vivevo a Baku. Pianta stradale ortogonale, buche qua e là dove potrei facilmente amputarmi una gamba, gatti gattini o gattacci ovunque. Parchi cementificati, ahimè, caykhane qua e là, venditori ambulanti di pane, che lo stoccano e trascinano in carriole. I samovar fumanti si accostano ai doner, con quell’aroma invitante che viene voglia di addentare sotto gli ombrelloni della Coca Cola. Ed ecco qui rinchiusi appunto, in un angolo di città, le anime del Paese: carovaniera, post-russa, turanica, araba, timidamente occhieggiante all’ occidente. Propri come i caratteri che compaiono qua e là, cirillico, latino, arabo. La lingua è un altro segno di questa commistione: La lingua maggioritaria, tagika (un dialetto del farsi), si affianca all’uzbeko turanico parlato nel resto del paese, al russo, lingua franca di comunicazione intergenerazionale e internazionale, e all’inglese. In fondo, siamo nel maggior raccordo commerciale di terra tra Cina e Europa, un carrefour per eccellenza, non a caso Alessandro Magno conquistò la città giusto qualche secolo fa, e ne rimase ammaliato, divenne la “terza Alessandria”.

Tuttavia, Samarcanda non è Tashkent, e non è solo perché al suono del suo nome l’Oriente ti pervade. E’perchè, preceduta dalla sua fama, nonostante si stia ora aprendo al turismo internazionale, la città rimane ancora molto tradizionale, quasi priva di locali di matrice estera, con gli abitanti abbigliati in maniera tradizionale, chevrolet scassate e statue che celebrano, in maniera molto asiatica, il culto della personalità. In una rotonda vi è la statua di Tamerlano, più avanti la gigantesca statua dedicata al Islom Karimov, nato e cresciuto a Samarcanda, ex satrapo reggente della Repubblica URSS, cooptato a primo presidente della Repubblica Uzbeka dopo la dissoluzione del gigante sovietico, scomparso nel 2016. Ha lasciato una legacy controversa, tra risentimento e nostalgia.

Samarcanda – ch.I

Ad ogni modo, l’attuale Presidente Mirziyoyev ha recentemente celebrato l’erezione di questo enorme (e inquietante?) monumento, seppur in netta discontinuità politica con il predecessore. Dalla morte di Karimov, il paese è diventato il più popoloso degli “stan”, uno di quelli a più alta crescita del mondo, ricchissimo di risorse minerarie, energetiche, agroalimentari, finalmente aperto agli investimenti esteri, che per via della posizione strategica, seppur rientri nella categoria delle landlocked countries, è oggetto di contesa tra le grandi potenze in competizione nel rinnovato clima di Grande Gioco: Russia, Turchia, Ue, Stati Uniti, Cina. Tuttavia, a Samarcanda, attiguamente all’antica necropoli degli Shah-i-Zinda, giace il mausoleo di Karimov, dove un anziano signore è pure venuto in pellegrinaggio con il figlio, chiedendomi di scattargli una foto, per commemorare il Suo leader. Poi a random ha voluto anche un selfie di noi tre assieme, davanti al sepolcro, ma vabè.

Il Registan

Arrivo al cospetto del Palazzo del Registan, uno scenario stupefacente che si staglia su una grande spianata. E’ qui che il mio autista aveva conosciuto Carlo d’Inghilterra, quando in visita istituzionale, circa vent’anni fa, si era soffermato a chiacchierare con i venditori di tappeti che lavoravano proprio al bazar dell’omonimo palazzo. “E’ per quello che poi sono andato in Uk, quell’incontro mi segnò, lo presi come un segno del destino. Aaargh lascia stare quel bambino mai cresciuto di suo figlio, Harry!”. Il Registan è una piazza simbolica per gli uzbeki, qua a e là ci sono servizi fotografici di coppie felici, le spose vestono abiti molto scenografici, sembrano delle Madame Thussauds!

Si tratta di un complesso di maestose madrase, la Madrasa di Ulugbek (la più antica). Situata nel lato occidentale del Registan, questa madrasa fu terminata nel 1420 durante il regno dell’omonimo sovrano, famoso studioso di astronomia, noto anche al coevo Occidente. Le pareti e il portale del monumento riflettono il suo amore per l’astronomia attraverso numerose stelle intarsiate. Le altre due madrase che compongono il Registan sono la Madrasa Rivestita d’Oro e la Madrasa del Leone, quest’ultima contravvenente il divieto di rappresentazione islamico, sul portale si distinguono appunto due preziosi leoni dorati. L’intero sito è straordinario, le decorazioni policrome, floreali, oniriche, che insistono particolarmente sul colore blu, contribuiscono ad eccedere le aspettative che la mia fame di esotismo aveva fomentato. Samarcanda è vera, qui di fronte a me, e i suoi abitanti siedono comodi sul cortile interno del palazzo, gli uomini portando quei variopinti cappellini uzbeki a uncinetto, le donne avvolgendo i capelli in morbidi tessuti. Gli uni vendono tappeti e stoffe nelle ex stanze adibite ad aule studio delle madrase, gli altri si accovacciano scalzi su una sorta di letti matrimoniali per riposare; alcune donne siedono a terra con le figlie per esporre delle sciarpe, altri bevono il tè su delle terrazzine, o intagliano sul legno dei simpatici gnomi caratteristici. Ognuno si fa gli affari propri, placidamente, quando incrocio i loro volti sembrano così atarassici, in pace, sembra che sorridano, seppure in realtà non lo facciano, è come se ci fosse una barriera invalicabile tra me e loro nonostante risulti così facile ricevere la loro serenità.

D’un tratto, invece, compare l’armadio a due ante della stazione. E va bene, a questo punto ci presentiamo, ha un nome: Vladimir. Vladimir il moscovita, insegnante di fisica, che viveva ad Odessa, e dopo la guerra in Ucraina ha deciso di intraprendere alcuni viaggi sospesi dal covid, ed ecco che dopo nove anni è venuto a trovare un amico fraterno che vive a Tashkent. Proprio come me, ha raggiunto in giornata Samarcanda, di cui aveva a lungo sognato, mi chiede se posso fargli una foto ricordo. Che bello, parla solo in russo, sono costretta a sforzarmi di interagire in quell’idioma a me caro. E’ uno sfegatato del Milan, come praticamente tutti i russi impazzisce quando gli dico che sono italiana. Vladimir non è per nulla atarassico, è ha quell’aria bonaria, caotica e travolgente che più appartiene alle anime slave che ho conosciuto. Camminando per la piazza, parliamo di Berlusconi (“Forza Italia!” dice), dell’Università Lomonosov, poi sobbalza quando gli dico che ho studiato la lingua e la cultura russa: arriviamo a Pushkin, “lui è il nostro tutto”, commenta, “semplicemente colossale”, “anche se sono un lettore fedele di Brodskij e Anna Achmatova”. Adoro come i russi parlino così facilmente e appassionatamente di poesia. D’un tratto sbuca anche un commento su Totò Cutugno, di cui è grande estimatore. Decido che è arrivato il momento di separarci. Mi chiede se ci possiamo vedere in stazione per prendere il treno di rientro, io sto sul vago, penso vorrò prendermi del tempo per me, gli dico che non so con che treno rientrerò.

(continua..)

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