Ore 22.50. Nazareth, Galilea. Betharram Institute.
Scrivo accanto alla finestra anni settanta della mia cella. La vista è sulla downtown di Nazareth, un tappeto di luci in lontananza abitato dalla comunità musulmana. Io dormo in collina, dove vivono ebrei e cattolici. Sento in lontananza le celebrazioni dello Shabbat, è un venerdì sera di ottobre, e il profumo d’estate è ancora inebriante.
Ho raggiunto l’Istituto Betharram con l’ultimo sovraffollato sharut del venerdì sera. Ogni venerdì dell’anno la Terra Santa cede a una dolce letargia: iniziano le celebrazioni religiose ebraiche, islamiche, cristiane, scade il tempo del lavoro. “Shabbat” in lingua ebraica significa “smettere”, è il giorno del riposo, della tregua dalla routine. Pertanto rimediare un taxi in servizio all’aeroporto di Tel Aviv è praticamente impossibile, ma mi sono unita più o meno per caso alla compagnia di australiani, ebrei giamaicani e hippies appiedati per rincorrere l’ultimo sharut in servizio per Haifa.
Lasciamo la Giudea della chiassosa Tel Aviv, passiamo per la Samaria di Haifa, e approdiamo in Galilea. Il tempo di cenare in ospizio, fare due passi nel piazzale antistante, spiare un appartamento in festa, assaggiare due pere fresche offerte dal fruttivendolo all’angolo, e sono già nel mio letto spartano. L’Istituto, rinnovato nel corso del Giubileo del 2000, è stato fondato da una suora cristiano-palestinese e una suora carmelitana con lo scopo di fornire dal 1880 un centro di ritrovo a tutti religiosi betharramiti, una congregazione clericale maschile di diritto pontificio.
Oggi ho imparato qualche parola in arabo chiacchierando con l’autista, eccole
Oud strumento a corde mediorientale, simile al greco “bouzouki”.
qahwa caffè, l’ho assaggiato in ospizio al sapore di cardamomo.
merhaba ciao


21-22 ottobre 2017
La vita del pellegrino ha i suoi pro e contro. La sveglia suona normalmente alle 6.45 e la giornata termina attorno alle 21.00. La vita mondana non rientra propriamente nella routine. La sera si medita, si scrive, si conversa con qualche compagno d’ospizio. Si ciondola mollemente per i corridoi di questo attempato edificio, si respirano la frescura e il silenzio del chiostro, si assiste alle esibizioni di oud in refettorio, si ascoltano delle storie. Tra le storie più esotiche ricordo quelle di due ragazze cristiane di Mumbai: una giovane psicologa e una ragazza marinaio. Due coetanee, vite lontane, ma estremamente vicine, le nostre. Ogni tanto converso con Badia, il portinaio. Ieri mi ha fatto notare la facilità con cui ho confuso etnia e religione, mentre chiedevo come fosse distribuita a Nazareth la popolazione di ebrei e arabi. “Bada bene Claudia, qui siamo tutti arabi, non c’è distinzione tra le parti. La differenza è determinata dal Dio in cui credi”. A Nazareth ogni giorno si alternano il suono delle campane della Basilica dell’Annunciazione e il canto del muezzin, gli ebrei israeliani incrociano gli israeliani musulmani sorvolando su discordie antiche e recenti. Sulla strada per Zippori si incontrano i quartieri abitati da ex beduini musulmani del deserto, che oggi hanno ottenuto una casa e un lavoro dallo Stato israeliano in cambio del servizio militare. Ciò provoca profondo risentimento all’interno della stessa comunità musulmana, che ha tacciato di alto tradimento i suoi fratelli.


Nazareth è il simbolo della convivenza stentata che caratterizza lo stato di Israele, dove il Dio denaro incrocia gli interessi dei commercianti musulmani e ebrei, che a dispetto delle controversie vendono indistintamente souvenir di entrambe le religioni. Nelle stesse strade compaiono murales a memoria della strage della Nakba (“catastrofe”) palestinese, proprio nel centro città, sotto gli occhi dell’amministrazione israeliana. Commemorata dai palestinesi ogni 15 maggio, la Nakba ricorda l’esodo palestinese avvenuto nel 1948, al termine del Mandato Britannico e durante la prima guerra arabo israeliana scoppiata alla fondazione dello Stato di Israele. Più di 700.000 arabi palestinesi abbandonarono città e villaggi, o ne furono espulsi, e successivamente si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre, sia durante che al termine del conflitto. Nel febbraio 2010 la Knesset (Parlamento israeliano) ha varato una legge che proibisce di manifestare pubblicamente lutto e dolore in Israele nella giornata del 15 maggio.



Il centro di Nazareth custodisce gli eleganti e imponenti edifici del Mandato Britannico, che si susseguono nelle viette via via più intricate della città vecchia, dove abbondano forni rudimentali e venditori ambulanti di datteri, fichi e pannocchie in prossimità del mercato coperto a gestione palestinese. Qui è ubicata la Moschea Bianca, focolare di scontri e resistenza musulmana nel passato tumultuoso della città, proprio dietro a una delle grotte in cui, secondo quanto tramandato, predicava Gesù. Per accedervi è necessario annaspare tra venditori di ibrik (caffettiera mediorientale) e souvenir di ogni sorta, che riesco a distrarre solo menzionando Koko Asayan, un cantautore armeno venerato nella compagine mediorientale e a quanto pare dall’intero mercato coperto di Nazareth, che lo trasmette senza posa dagli altoparlanti. Più avanti la Basilica dell’Annunciazione raccoglie masnade di fedeli che si accodano per visitare la famosa grotta dell’Annunciazione. La giovane Basilica (1969) è inserita in un notevole complesso monumentale, è oggi il monumento simbolo della città, visibile da quasi ogni angolo della stessa, e fulcro del principale indotto turistico.


Fuori Nazareth vige il regno della desolata e silente piana di Galilea.
Le visite del pellegrino iniziano alle 8 del mattino. A quest’ora, a Zippori, tutto tace. La flebile luce del mattino regala un colore ambrato alla pietra della città che fu.
Gli scavi del sito archeologico sono stati effettuati dall’ Università di Torino, che ha dato alla luce resti risalenti al IV secolo a.C. La storia e l’architettura di quest’antica città riproducono influenze ellenistiche, giudee, romane, bizantine, islamiche, crociate, ottomane. Tra le strutture in rilievo spiccano un teatro romano, due chiese paleocristiane, una fortezza crociata (poi passata in mano ottomana a britannica), e quaranta meravigliosi mosaici. Resti in abbandono, solitari, memori di passata grandezza. L’unico sito oggi in funzione è un’antica sinagoga, dove assistiamo a una festa di Bar mitzvah, la celebrazione religiosa con cui i giovani di religione ebraica ricevono le leggi della Torah e accedono all’età adulta (a 13 anni i ragazzi, a1 12 le ragazze).



Di epoca crociata è anche il santuario poco distante che giace sul Monte Tabor, dove si dice che sia avvenuta la Trasfigurazione di Cristo. Il primo di una lunga serie di santuari che si sono distinti più per la valenza simbolica che per misticismo, a dispetto dell’ubicazione idilliaca, tra cipressi e ulivi, a strapiombo sulla valle di Galilea.
Svuotati del loro significato religioso, i luoghi sacri della Galilea sono confezionati in santuari kitsch e asettici, destinati ad ospitare ingenti moli di fedeli da tutto il mondo che alimentano una rodata macchina di business turistico. L’unico modo per viverne la sacralità è fuggire al largo delle masse dei fedeli, laddove regnano la solitudine e il silenzio di queste terre indomite, selvagge ed evocative. Il Lago di Tiberiade, a 200 m di depressione, il mattino presto, infuocato dal sole, è tutto questo. Ho l’occasione di assistervi durante la visita alla Basilica del Primato, eretta a memoria dell’episodio evangelico della distribuzione dei pani e dei pesci. Forse è uno dei pochi episodi che mi ricordo di aver sentito negli anni in cui venivo spedita al catechismo. La luce accecante emanata dal sole mattutino si espande in tutto il circondario, filtrando tra la bruma, specchiandosi nelle acque luccicanti del lago di Tiberiade. Sono sospesa. Alle 9 del mattino sono già quasi 30 gradi, e le rive del lago si decorano del chiaroscuro di qualche bagnante. Sono i miei compagni di viaggio in questo fluttuare paradisiaco. Questa forse è la fede. Non il contenitore architettonico adibito al culto, ma la meraviglia trascendentale della natura che mi coglie in una mattina così ordinaria, seppur apparentemente immune dal tempo. Chissà, forse in un momento non precisato del passato un profeta assisteva agli stessi ovattati albori mattutini in compagnia di qualche discepolo, nel tempo che fu, ai piedi del Monte delle Beatitudini.


E di un discepolo, Pietro, ho visitato l’antica magione nella città di Cafarnao, rinvenuta nel corso del XX secolo. Le origini del millenario insediamento risalgono al II secolo a.C., epoca in cui furono realizzate le splendide colonne corinzie della sinagoga e le abitazioni in basalto, derivanti dalla pietra lavica della zona del Mar di Galilea. Si dice che Cafarnao fosse il rifugio del Profeta, nonché il luogo in cui diede inizio a predicazione e proselitismo. Cana di Galilea è invece oggi un comune paesino a maggioranza musulmana, basato per lo più su attività commerciali legate al turismo religioso. Spiccano in particolare gli ubiqui baracchini di succo di melograno, un must-have di tutta la Galilea, Giudea e Palestina. I siti principali sono il Santuario greco-ortodosso di San Giorgio e il Santuario delle Nozze di Cana, dove il Profeta trasformò il calice d’acqua in vino. Una cappella defilata all’ombra di qualche palma è adibita all’uso dei fedeli, che qui possono rinnovare le loro promesse matrimoniali, proprio come i miei compagni di viaggio.



La nostra prossima tappa sarà Betlemme, presso cui pernotteremo per cinque notti. Mentre ripercorriamo la costa di Haifa il sole sta tramontando all’orizzonte, assieme ai miei iniziali propositi di viaggio.
Sulla soglia della partenza, ogni viaggiatore si incammina con il proprio bagaglio di aspettative, desideri da esaudire, miti da sfatare. Forse prima di partire credevo di poter trovare la fede, o quantomeno di poterne sentire il fondamento. Non mi è possibile focalizzarmi sulla ricerca o la professione della fede, quando la realtà ha così tanto da raccontare. La verità è che in queste terre la fede è metafora di dominazione, identità, istinto di sopravvivenza. Il turista curioso non sarà mai vinto dai presunti luoghi evocativi propinati dagli elaborati pacchetti turistici, quanto dalla contraddittorietà del quotidiano, del vicino di carreggiata. Continuo a seguire il corso della luna anche sulla superstrada che sfiora Tel Aviv, di cui scorgo i grattacieli in lontananza, gli stessi che mi avevano fatto respirare un non so quale sapore di libertà, presto mutato, in soli tre giorni di permanenza nella Israele della Galilea, modesta, orientale, difficile, sincera. Entro sera passeremo i posti di blocco per accedere alla West Bank, la zona di “Palestina occupata” recintata a partire dal 2002 dalla “chiusura di sicurezza”, una cinta muraria in cemento armato a separazione, imprigionamento e controllo delle aree cisgiordane.