“I am the Intrepid Traveler – Never a dull moment” Jim Thompson

Sorseggio una tazza di tè nero del Siam al the Oss – un angolo di ineffabile estetica orientalista, riscaldata dai colori del teak, dall’oro delle lanterne che affollano il soffitto in ottone, dai dettagli dell’accattivante American Bar. L’edonismo asiatico assale gli accidiosi del tea time, che dondolano lo sguardo sul fiume Chao Praya ad ogni sorso, seguendo il moto ondivago e sonnolento delle barche che scorrono affianco alle slum a bordo fiume, quasi osservando il ritmo vellutato di Louis Armstrong, che suona a basso volume la sensuale The Little Brown Book in un afoso, monsonico pomeriggio di agosto a Bangkok.



Il the Oss bar è la metafora di un uomo, Jim Thompson, il farang più enigmatico, iconico, memorabile della “città degli angeli”. Costui sbarcò ad Algeri tramite l’Operazione Torch, nel giugno del 1943, per preparare lo sbarco in Sicilia. Già reclutato dall’intelligence americana in tempo di guerra, nel gennaio del ‘45 si spostò nel teatro del conflitto indo-birmano fino a quando i giapponesi non si arresero. In seguito Jim, con il suo rayban wayfarer, si unì al movimento di liberazione thailandese giungendo nella capitale il giorno di ferragosto del 45. Non lasciò mai più la Thailandia, divenne un attachè presso l’Ambasciata americana di Bangkok, fino a quando lasciò l’incarico per rimanere nel Siam in veste ufficiale di businessman. Il principe dei farang sopraffini è lui, occidentale, faccendiere, vizioso, perspicace, multiforme, astuto, irresistibilmente imperscrutabile. Proprio come la sua dimora, che ho appena finito di visitare: un’accozzaglia di oggetti e delizie architettoniche adombrate dalla natura tropicale, che cresce rigogliosa ai piedi dei grattacieli della metropoli chiassosa, inquinata, umida e maleodorante.



Jim scelse di vivere qui, dove Bangkok evapora in tutto il suo aroma nell’afa delle acque putride del lungo fiume, di fronte alle baraccopoli, nel pieno dell’odore odioso e al contempo adorabilmente assuefacente e inebriante di questa città seducente.
Gli americani si stabilirono nel Siam dopo averlo liberato dai giapponesi, “favore” che riscossero ponendo le basi per la presenza del loro contingente militare più consistente e la base diplomatica più corposa e capillare del sud-est asiatico. Tutti sanno a Sukhumvit, il quartiere business e trendy dei farang, che l’ambasciatore americano mantiene tutt’ora il diritto di pagare solo 1€ di affitto all’anno per la sua residenza. La presenza americana in Thailandia è una in soldoni una versione postmoderna del sistema delle capitolazioni, in cui la ieraticità della monarchia viene protetta dalla giunta militare locale in cooperazione con gli inquilini americani.


La fama dissoluta e maledetta di questa città nacque proprio con l’arrivo degli Alleati. I signori dell’Occidente utilizzarono Bangkok come base di intervento negli scenari di guerra indocinesi in fase di decolonizzazione, poi per organizzare militarmente la guerra del Vietnam. La reputazione della Thailandia come il paese del sorriso, il regno del cosmopolitismo e il paradiso del sesso, si originò proprio in quegli anni. Fu in quel momento che si originarono le prime coppie miste che diedero alla luce i luk khrueng, cittadini thailandesi mezzosangue che furono, e continuano in qualche misura, ad essere esposti a discriminazione da parte dei locali. Oggi l’industria del sesso sopravvive proliferando specialmente in alcune aree del paese, a partire dalla disgustosa Soy Cowboy di Sukhumvit. Qui la sera i cinesi, i giapponesi, i farang che lasciano i club, i ristoranti più chic, i thai massage, i pub più squallidi, accedono ai vari locali a luci rosse dopo una lunga passerella nello squallore di un mercificato capitale umano. Alcuni locali sono gestiti dai militari, altri sono di proprietà giapponese, l’unica cosa che ricordo è che entrano degli sfigati colossali. Che schifo. Federico, il mio amico connazionale che da sei anni si è trasferito a Bangkok per lavoro, mi aveva avvisato “Ti ho chiesto se preferivi il rooftop bar o le tette? E tu mi hai scelto le tette! Peggio per te, ora non ti lamentare di quello che vedi.” Volevo vedere da cosa derivasse lo stereotipo su questa terra, a cui mi stavo velocemente appassionando. Di fatto credo che l’immagine della Thailandia come la terra di Sodoma e Gomorra in salsa agrodolce sia un’invenzione tutta occidentale, creata da un mucchio di europei che vertono in uno stadio piuttosto noioso della loro esistenza storica. In realtà si tratta di una nazione politicamente piuttosto conservatrice e autoritaria, ossessionata dal fitness, dalla salute, da un eccentrico senso estetico. Solo a Bangkok si praticano circa 100 sbiancamenti del pene al mese e i 7Eleven (gli ubiqui convenient stores) implodono di cremine viso sbiancanti. Ma la Thailandia non è poi così particolarmente nevrotica o ossessiva riguardo al sesso: quelli forse sono i nostri turisti “premium”.

Dimenticavo, Jim. Jim invece aveva molto stile. Una vecchia canaglia americana che fondò un impero del fashion orientale, lanciando la Jim Thompson silk, un marchio che tutt’ora è sinonimo di eccellenza nell’abbigliamento, nell’arredo, nell’incomparabile appeal senza tempo, un glamour orientalista e al contempo irresistibilmente colonialista. Jim proveniva da una ricca famiglia proprietaria di un’industria tessile, così gli fu naturale investire i suoi capitali ed il suo talento nella riscoperta della tradizione della seta thailandese, beneficiando dell’amicizia con il primo ministro Pridi Banomyong. Pridi aveva servito come leader della resistenza anti-giapponese e fu fondamentale per la realizzazione del progetto della Thai Silk Company Limited. Nella Bangkok caotica e suadente del dopoguerra Jim scivolava facilmente nell’immagine del businessman eclettico ed eccentrico, annacquando amabilmente la sua attività di informatore dei servizi (quali/quanti?), esponendo le sue raffinate sete nella hall del Mandarin Oriental e arricchendo il suo networking nei lunghi cocktail al Bamboo Bar.


La fama senza tempo di questo bar deriva appunto dall’appartenenza a uno degli hotel più antichi dell’Asia, affacciato sul Chao Praya. C’è la cultura del lusso e il lusso della cultura. Il Mandarin Oriental è un luogo che mette in condizione di apprezzare il tempo che scorre, lo spazio culturale in cui il viaggiatore sofisticato può caricarsi di quello spirito asiatico che sta ridefinendo l’Oriente diffondendosi al contempo in Occidente. Un tempo era posseduto da Louis Thomas Leonowens, figlio della famosa Anna Leonowens, istitutrice del modernizzatore Re Mongkut negli anni del Trattato commerciale di Bowring (1855) tra Regno del Siam, Gran Bretagna e Irlanda. Il famigerato Bamboo bar è tuttora un’icona di Bangkok, dove i viaggiatori old money e gli esponenti dello star system si recano per osservare o essere notati. E’un luogo intensamente estetico, dove mi reco per immergermi in un’atmosfera da proibizionismo in allure orientale rivestita di legno scuro, sedie di rattan, tavoli in marmo e caratteristici ventilatori che sfumano gli effluvi dei sigari degli oziosi altolocati. Un luogo perfetto per Jim Thompson, per i farang, (per me?), per gli stranieri viziati e viziosi da sempre sottoposti all’impietosa indagine radiologica dei locals.
Costoro giudicano i bianchi alla stregua di un cocktail torbido e insinuante, stando stretti nella tensione tra internazionalizzazione, progresso e attaccamento alle radici thai: si tratta del concetto geopolitico di siwilai, un tema vero nel dibattito politico-identitario thailandese, impersonificato dai luccicanti malls Iconsiam e Central Embassy, un’accattivante mistura tra avvenirismo architettonico, brands occidentali e una coloratissima ricostruzione di un mercato galleggiante nella zona della food court.


A proposito di progressismo, proprio in questi giorni è stato dichiarato fuori legge il partito Kao Klai (Move Forward), per essersi speso nell’abolizione del reato di lesa maestà del sovrano. Con una grande fuga in avanti è stata riabilitata dal confino la notoria famiglia Shinawatra, e Paetongtarn, la figlia del famigerato Thaksin, è stata nominata nuova premier della Thailandia. Un giro di boa che mira a mantenere l’establishment saldo sulla linea populista, forte del supporto elettorale delle complicate regioni del sud, leale allo status quo e connivente, di nuovo, con una monarchia che si regge sull’unità del Paese e sul supporto dei militari. Gli stessi militari che hanno preso il potere con un colpo di stato nel 2014, arrivando a detenere il potere di selezionare tutti e 250 i membri del Senato thailandese secondo la nuova Costituzione del 2017. Questo ha reso i militari un’ottima garanzia di equilibrio nonché un sicuro interlocutore per gli inquilini a stelle e strisce, che richiedono stabilità di regime dall’alto della loro roccaforte militare in sud-est asiatico, così da poter escogitare indisturbati la postura anticinese dei prossimi anni. Sempre loro, sempre i farang. Ma che vogliono?
Jim Thompson scomparve un giorno di fine marzo nel 1967 sulle Cameron Highlands in Malesia, dove si era recato per una breve villeggiatura e dove possedeva un cottage. Si racconta che abbia detto di essersene andato per una breve passeggiata. Non fece più ritorno. In tutti questi anni le ricerche non hanno condotto ad alcun risultato, vagliando l’ipotesi di incidente, di omicidio, di rapimento. Alcuni dicono che se ne sia andato, cambiando per sempre la sua identità. La storia di Jim è avvolta nell’affascinante aura della leggenda, nell’incognita della sua vera identità, dissimulata e confusa in una trama intelligibile di intrighi, doppie verità e una personalità controversa, destinata a divenire metafora di tutti i farang che vivono in questo “regno di vetro” che è la Thailandia.
Un proverbio thailandese dice “Kwam lub mai mee nai loke – Non ci sono segreti a questo mondo”. Dietro un vetro, si è sempre sotto sorveglianza, e il rifugio può rivelarsi una prigione, persino nell’atmosfera ovattata del The Oss bar. Saremo tutti noi arroganti e orientalisti farang condannati a fare la stessa fine di Jim, nella Città degli Angeli?
